Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  dicembre 15 Lunedì calendario

TV, FRIGO, PC: RIFIUTI NON RICICLATI

di LORENZO SALVIA

Forse il problema è che non puzza. Non diventa marcia, non semina liquami, molti pensano che al massimo possa arrugginire un po’. Insomma, il guaio è che a volte non sembra nemmeno spazzatura. E invece inquina, è piena di sostanze tossiche, infilarla nel cassonetto normale è un vero e proprio delitto. Ma nasconde un tesoro: ferro, rame, plastica, alluminio da riciclare in mille modi diversi.
In America la chiamano e-waste, noi ci dobbiamo accontentare della sigla scelta dai tecnici dei ministeri: Raee, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche. E cioè tutto ciò che è stato pensato contro il logorio della vita moderna: lavatrici, frigoriferi, televisioni, computer, cellulari, fino all’iPod e alle lampadine a basso consumo. Ne produciamo tanta: in Italia siamo sulle 800 mila tonnellate l’anno, più o meno il peso di una quarantina di traghetti. Ma ne ricicliamo troppo poca, anche se lentamente le cose stanno migliorando. Dei 14 chili l’anno che ne sforna ognuno di noi, il recupero si ferma a due chili. Contro un obiettivo fissato dalla legge a 4 e la solita, umiliante, media europea che arriva a 6.
Perché siamo così indietro? Siamo partiti tardi. L’obbligo di raccogliere separatamente e riciclare questo tipo di rifiuti arriva da una direttiva europea vecchia ormai di 6 anni. In Italia è stata recepita tre anni dopo ma ancora adesso manca qualcosa. Ci sono le piazzole dove raccogliere separatamente la monnezza del 2000 anche se nel Mezzogiorno sono ancora una rarità: quasi 2.800 in tutta Italia ma appena 23 in Sicilia contro le 711 della Lombardia. Abbiamo anche spinto i produttori di elettrodomestici e similari a creare consorzi ad hoc che provvedono allo smaltimento e al riciclo. Abbiamo anche, naturalmente, una tassa che paghiamo ogni volta che compriamo un apparecchio nuovo proprio per finanziare la costruzione di questo sistema virtuoso. Non ce ne accorgiamo perché per legge non è obbligatorio renderla visibile ma ogni volta che acquistiamo un frigorifero paghiamo 16 euro che servono per «pagare» lo smaltimento e il riciclo di quello vecchio. Gli euro diventano 5 per una lavatrice, 3 e mezzo per un televisore fino ai 25 centesimi per l’iPod e i 28 per le lampadine a basso consumo. Il principio ha la sua logica: per smaltire questo tipo di rifiuto non pagano più indistintamente tutti i cittadini attraverso la Tarsu, la tassa comunale sui rifiuti. Ma solo quelli che li producono, e cioè chi compra una tv nuova e quindi ne deve buttare via una vecchia.
Tutto bene, se non per quel pezzetto che manca, il cosiddetto ritiro uno contro uno. Compro un frigorifero nuovo e il commerciante, gratis, ritira quello vecchio. «Nei Paesi dove questo sistema c’è già, come il Belgio, – spiega Danilo Bonato, direttore generale di Remedia, uno dei consorzi più grandi tra quelli creati dai produttori per la raccolta dell’usato – viene recuperato così il 40 per cento dei rifiuti elettronici».
L’obbligo doveva essere introdotto già un anno fa ma tra proroghe e rinvii siamo ancora qui ad aspettare: il decreto è ancora fermo al Consiglio di Stato per il parere previsto dalla legge. Ed ha ragione Bonato a dire che non bisogna guardare «solo al bicchiere mezzo vuoto ma anche a quello mezzo pieno»: se oggi raccogliamo 2 chili pro capite di spazzatura tecnologica, solo due anni prima eravamo messi ancora peggio con 1,15. Ma lui stesso riconosce che proprio il ritiro uno contro uno ci consentirebbe di «migliorare di molto i nostri risultati».
Oggi chi vuole che il vecchio frigorifero non ingentilisca il paesaggio circostante ha tre strade: portarlo eroicamente di persona in una delle 2.800 piazzole che si occupano di questo; farlo ritirare dal servizio messo a disposizione dal Comune, ma si paga e il maneggevole apparecchio va portato davanti al portone di casa; oppure farlo ritirare al negoziante dove si compra quello nuovo, ma anche questa volta si paga, a seconda dei casi dai 10 ai 20 euro. Il problema sta tutto qui: con il decreto il ritiro da parte del negoziante diventerebbe obbligatorio e gratuito. «Anche per questo – dice Claudia Chiozzotto, esperta di ambiente per Altroconsumo, associazione per la difesa dei consumatori – si spiega una certa resistenza da parte dei negozianti». Accusa respinta da Federdistribuzione, l’associazione che rappresenta le grandi catene commerciali, che in effetti ha anche le sue ragioni: per far partire davvero il sistema bisogna modificare anche altre norme, perché i commercianti non possono trattare quello che oggi è tecnicamente un rifiuto.
Le previsioni degli addetti ai lavori dicono che il decreto vedrà il traguardo a primavera. Ma senza altri aggiustamenti tecnici non potrà davvero partire. E visti i tanti rinvii che ci sono stati finora, l’attesa fiduciosa potrebbe essere vana.
Nel frattempo la spazzatura elettronica che non entra nel circuito virtuoso del riciclo si avventura lungo strade pericolose. C’è quella che resta in cantina o in soffitta, e poco male perché è un guaio privato. «Ma il problema è che non si conosce il destino del 75 per cento di questo tipo di rifiuti» spiega Vittoria Polidori, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace. Finisce in discarica insieme alla monnezza vera e propria, con il pericolo che diverse sostanze tossiche possano contaminare l’ambiente, viene bruciata con pericoli ancora maggiori. Oppure viene esportata illegalmente. Soprattutto verso l’Africa. A Lagos, in Nigeria, ogni mese arrivano dall’Europa e dall’America 500 container carichi di spazzatura high tech. A volte vengono rivenduti nel mercatino dell’elettronica più grande del mondo, 6 mila ettari. Ma molto spesso finiscono per essere buttati qua e là. Altra meta di questo flusso nascosto è il Ghana dove sono stati trovati anche televisori arrivati dall’Italia. Niente recupero, niente riciclo. Con buona pace dell’Africa, discarica del mondo.

Lorenzo Salvia




ROMA – Una mattonella, una normale mattonella di quelle che si usano nelle case. Un tavolo di plastica, un barattolo di vetro, persino la carta stagnola che usiamo in cucina. Oppure il pavimento morbido usato sotto le altalene e gli scivoli per attutire le cadute dei bambini. Il televisore è come il maiale, non si butta via niente. E sono infiniti i modi in cui riciclare i materiali che lo compongono. Tra plastica, vetro e rame è possibile riutilizzare il 93 per cento di quello scatolone che pensavamo inservibile.
Un miracolo quotidiano che comincia in una delle 2.800 piazzole di raccolta sparse in (quasi) tutta Italia. Una seccatura portarlo lì. Ma una seccatura sacrosanta perché fa risparmiare energia e dà un bel colpo di ramazza alla spazzatura tecnologica che ci assedia. Cosa succede, dunque, al nostro vecchio televisore? Per essere aperto, sezionato e riutilizzato viene portato dalle piazzole in uno dei 20 centri specializzati.
La parte più corposa da riutilizzare è il vetro. Quasi tutte le tv che finiscono nelle piazzole (il 97 per cento) sono quelle grandi a tubo catodico, non gli ultra piatti che hanno ormai conquistato il mercato. Il televisore che seguiamo nel nostro viaggio lungo la strada del riciclo è proprio di questo tipo. Schermo a 26 pollici, 30 chili di peso, per metà vetro. Vetro di due tipi: lo schermo, 10 chili, è puro. Nella maggior parte dei casi, triturato e mischiato con altri componenti, torna nelle nostre case sotto forma di mattonella: ne verranno fuori una decina di quelle standard, 15 centimetri per 15. Ma può reincarnarsi in un vaso da fiori, in una dozzina di bicchieri. E anche, per chiudere il ciclo con un cerchio perfetto, in un nuovo schermo per la tv.
Ci sono poi altri cinque chili di vetro, quelli del cono dietro lo schermo, che invece contengono piombo. Materiale meno puro ma non per questo inutilizzabile: unito con la gomma, può trasformarsi nel pavimento morbidoso di un parco giochi per bambini. Ne verrà fuori un metro quadro.
Nel nostro vecchio televisore c’è un altro tesoretto, il rame: 400 grammi nascosti dietro il tubo catodico. Nella maggior parte dei casi torna a nuova vita sotto forma di computer: quei 400 grammi bastano per costruire i circuiti di quasi due pc. Ma possono essere utilizzati anche per fabbricare un paio di metri di grondaia, di quelle belle scintillanti delle case di campagna.
Altro materiale abbondante è la plastica. Tra guscio, parti interne e supporti sono 5 chili. Anche questi tornano silenziosamente nelle nostre case. Ne possono venir fuori una quarantina di grucce per gli armadi, oppure un centinaio di righelli da usare a scuola, una sedia, un piccolo tavolino. Il tutto risparmiando il petrolio che sprecheremmo con la plastica nuova.
Oramai il nostro vecchio televisore è uno scheletro. Ma il miracolo non è finito: da prendere ci sono ancora tre chili di ferro, che possono diventare sedie o tavoli anche se di solito vengono venduti come materia prima per l’industria pesante; 200 grammi di alluminio che possono seguire la stessa strada, oppure avvolgere un pollo arrosto sotto forma di carta stagnola. E poi il tesoro vero e proprio, oro e argento. Fermi, non scendete in cantina per prendere a martellate il vecchio 26 pollici della nonna. Le quantità sono davvero minime, 1 o 2 grammi al massimo nella scheda elettronica. Il gioco non vale la candela ed è roba per addetti ai lavori: nel tubo catodico ci sono sostanze tossiche come il cadmio e il bario, molto pericolose se non vengono smaltite a regola d’arte. Sono le uniche parti che non possono essere riutilizzate. Il resto è una variazione sul tema di quella vecchia canzone di Sergio Endrigo: per fare un tavolo ci vuole un televisore. Meno poetico del fiore ma anche salvare il pianeta è una poesia.

L. Sal.