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 2008  dicembre 15 Lunedì calendario

REPORTAGE DAL CONGO

di MARIO VARGAS LLOSA

Nella città di Boma, capitale di quest’immenso paese quando ancora si chiamava Stato Libero del Congo ed era proprietà privata del re dei belgi, Leopoldo II, il signor Placide Clement Mananga è impegnato in una lotta per la civilità e contro la barbarie. Questa non ha, per lui, il volto atroce delle violenze, dei massacri, delle epidemie e della fame che si vede in altre regioni del paese, ma quello dell’oblio. Monsieur Placide, quand’era giovane, è stato per quattro anni in un seminario cattolico per prepararsi al sacerdozio, ma le regole di vita erano molto severe e lui ha abbandonato. Forse in quel periodo di digiuni, privazioni e preghiere è stato contagiato dall’amore per i tempi passati e ha intuito che un paese che si arrende all’amnesia della storia rimane senza difese.
 un uomo dolce, molto magro, servizievole, timido, dai modi eleganti. Ha un piccolo posto di lavoro in Municipio e da tempo raccoglie tutti i vecchi documenti, le riviste, i ritagli di giornale, le lettere che hanno qualche attinenza con Boma. Accanto alla sua scrivania è ammucchiato tutto questo materiale che, un giorno, sarà l’embrione dell’Archivio Storico del luogo. Passo un bel po’ di tempo a esaminare fascicoli, sillabari e catechismi dell’epoca coloniale, manuali che insegnano alle signorine come comportarsi in società, atti di morte, registri in cui gli indigeni vengono catalogati per razza, etnia e domicilio, cartelli con le proibizioni che si affiggevano nel quartiere dei coloni e in quello dei nativi all’epoca in cui sbarcarono qui gli europei con il mandato, sancito dall’accordo di Berlino del 1885, di mettere fine alla tratta degli schiavi e di civilizzare il paese utilizzando il libero commercio per aprirlo al mondo e farlo prosperare. Non hanno fatto nulla di tutto ciò.
La residenza del governatore generale, circondata da lussureggianti baobab centenari, mostra ancora fregi in cui si intravede il volto inciso della regina del Belgio. Al primo piano di questa casa che sembra sul punto di sfarinarsi come una mummia millenaria, monsieur Placide ci porta in una stanza vuota con solo due tavolini davanti ai quali sono sedute due donne. Non senza orgoglio ci dice: «Questa è la biblioteca di Boma». E i libri? Non ce n’è neppure uno. Ci spiega che sono custoditi in casse in vari depositi ma che, un giorno, quando saranno costruiti gli scaffali, verranno portati qui e questa stanza sarà piena di lettori. Nel frattempo la bibliotecaria e la sua assistente arrivano puntuali ogni giorno al loro posto di lavoro dove trascorrono le otto ore canoniche. Il loro stipendio, certo, è fantasmatico come i libri che gestiscono.
Questa non è la mia prima esperienza di lavori immaginari in Congo. La biblioteca di Boma non è un’eccezione. Si tratta, insomma, di un’epidemia che, a differenza del colera o della malaria, è benefica. Due giorni prima, a Matadi, a 130 chilometri di distanza risalendo il fiume, ho visitato la stazione ferroviaria costruita da Stanley, solido e imponente edificio giallo su cui una grande lapide annuncia che, di qui, partì il treno per Kinshasa (allora si chiamava Leopoldville) il 9 agosto 1877. Il posto è parecchio frequentato. Un distaccamento di polizia è a guardia delle strutture e c’è un capostazione nel suo ufficio, con un berretto e uno spolverino che devono essere la sua uniforme. Nei vari uffici ho contato una ventina di persone, uomini e donne, seduti alla scrivania, che aprivano e chiudevano cassetti e mettevano in ordine gli scaffali. C’erano, persino, impiegati addetti alla biglietteria. Alcuni tabelloni indicavano l’orario di partenza dei treni e le stazioni in cui si sarebbe fermato quello diretto a Kinshasa. Ma l’ultimo treno è partito da qui molti anni fa. Vivono tutti in una finzione. Vanno a lavorare ogni giorno, compilano formulari e tessere, aggiornano le informazioni e riposano la domenica.
Qualche giorno dopo, in un altro paesino coloniale nel Basso Congo, mi trovo di fronte a un identico spettacolo. Lì, la stazione è costituita, in realtà, da un’enorme officina di riparazioni e da un deposito di locomotori e vagoni fuori servizio. Il posto è pieno di operai, guardie, impiegati che occupano tutti gli uffici e vanno e vengono da una parte all’altra. Si direbbe che sono pieni di lavoro. Ma i vagoni sono stati smembrati da tempo e i locomotori sono scheletri arrugginiti senza ruote né timoni. Tutta questa attività è puro teatro, una pantomima alla quale prende parte l’intera comunità.
A poco a poco scopro che tutto il Congo è disseminato di simili finzioni. Senza andare tanto lontano, l’Aeroporto Internazionale di Kinshasa ha un’intera ala, occupata un tempo da compagnie ora scomparse, dove gli impiegati continuano tranquillamente a occupare i propri posti, mattina e pomeriggio. Come prima.
Di che cosa si tratta? D’un esercizio collettivo di magia simpatetica, simile a quello dei popoli primitivi che, secondo quanto racconta Frazer nel Ramo d’oro, battono i piedi contro il suolo imitando il rumore delle gocce di pioggia perché il cielo, influenzato da questo atteggiamento, scarichi la sua acqua sulla terra assetata. Ma non c’è nulla di primitivo - al contrario, c’è un comportamento altamente civile - in questo ricorso alla finzione grazie al quale migliaia di congolesi continuano ad andare a lavorare anche se sanno benissimo che questi lavori non esistono. Fanno quel che possono fare. Non dipende da loro resuscitare i locomotori distrutti, né comprare i libri per la biblioteca, né imporre di tornare alle compagnie aeree che se ne sono andate. Ma continuare a recarsi al proprio posto di lavoro, contro ogni realismo, è una manifestazione di speranza, un modo per non farsi travolgere dalla disperazione, di proclamare ai quattro venti che esiste un futuro, che la vita - il lavoro - rinascerà e quel loro disgraziato paese risusciterà dalle ceneri come la fenice. Quando ciò accadrà loro staranno lì, in prima fila, a combattere per il riscatto. E allora, senza dubbio, riavranno quegli stipendi che, da tempo, sono ormai scomparsi dalle loro vite, proprio come la pace, la sicurezza, il sostentamento, l’allegria.
Quando la realtà diventa insopportabile, la finzione è un rifugio. Per questo esiste la letteratura, questa via di fuga per chi è triste, nostalgico, sognatore. I congolesi non la leggono, la vivono.
© El País