Roberto Gervaso, Il Messaggero 15/12/2008, 15 dicembre 2008
Caro Signor Gervaso, mi piacerebbe se rievocasse il dramma delle tribù indiane decimate dai bianchi
Caro Signor Gervaso, mi piacerebbe se rievocasse il dramma delle tribù indiane decimate dai bianchi. La storia di parte, soprattutto americana, ha colpevolmente sottovalutato o, peggio, manipolato questa tragedia. Renato Sica - Palermo La massiccia immigrazione europea sulle coste atlantiche, trampolino della marcia verso l’occidente, fu lenta e a ondate successive. La prima, all’inizio del Settecento, andò a infrangersi contro la barriera dei monti Appalachi. La seconda, cinquant’anni dopo, sommerse la grande vallata fra gli Appalachi e il Mississippi. La terza, alla fine del secolo, dilagò di là dal fiume, invase la prateria, scavalcò le Montagne Rocciose e si tuffò in California. Fu una alluvione eroica e sanguinosa, che culminò nel genocidio degli indigeni, uno dei più spaventosi della Storia. Si chiamavano indiani o pellirosse, erano originari dell’Asia da dove, in epoca immemorabile, erano emigrati nel Nuovo Mondo, che doveva essere decrepito quando vi approdarono le caravelle di Colombo. Nei tratti somatici tradivano l’origine mongoloide: occhi dal taglio sottile, chioma nera e liscia, zigomi prominenti, pelle glabra. Si erano sparpagliati nell’immenso continente dando vita a una miriade di tribù indipendenti e seminomadi. Divise in clan, talvolta si federavano, più spesso si scannavano. In comune avevano la fede, una specie di animismo, intriso di magia e di superstizione, che vedeva nelle forze della natura l’incarnazione del Bene e del Male, e in Manitù, che tutti pregavano, il proprio Dio. Ogni tribù aveva i suoi costumi e le sue abitudini. Gli Snake, che abitavano fra la Sierra Madre e le Montagne Rocciose, vivevano in buche scavate nel terreno. Si nutrivano di serpenti e cavallette e si vestivano con cortecce d’albero e pelli di coniglio. I Sioux, i Cheyenne, gli Apache, stanziatisi nelle Grandi Pianure, erano i più evoluti e sofisticati. Indossavano perizoma, mantello e ghette, maneggiavano l’arco, cavalcavano con abilità, vivevano in tende coniche di cuoio smontabili e adatte ai frequenti spostamenti. Gli uomini cacciavano i bisonti; le donne coltivavano la zucca e il mais. I Seminole, acquartieratisi in Florida, dove sopravvivono alcuni esemplari, avevano come unico indumento un cencio colorato a foggia di mutande. Si tingevano la faccia e il petto, si rapavano a zero lasciando intonso, al centro del cranio, un ciuffo sul quale issavano una penna. Praticavano con moderazione la poligamia, condannavano l’adulterio, ammettevano il divorzio e il matrimonio di prova. I rapporti fra queste tribù e i bianchi, lanciati alla conquista del Nuovo Continente e dei suoi immensi spazi, variavano a seconda della nazionalità dei coloni, ma nell’insieme erano pessimi. Gli spagnoli volevano convertire gli indigeni al cristianesimo, i francesi insidiavano le loro donne, gli inglesi dicevano che non c’era migliore pellerossa di un pellerossa morto. E non se ne facevano scappare uno. La lotta fra i nuovi inquilini e gli indiani insanguinò per due secoli l’America e costituì uno dei capitoli più vergognosi della sua storia. Con la proclamazione degli Stati Uniti, Washington, a nome dei bianchi, ne assunse ufficialmente la guida. Centinaia di migliaia di pellirosse sfuggiti alle carabine degli eserciti federali furono deportati in campi di concentramento, eufemisticamente chiamati riserve, e le loro terre passarono ai "visi pallidi". Non tutti vi si rassegnarono, ma i più deposero le armi, mentre cominciava la frenetica, irresistibile corsa dei bianchi verso la California dove, nel 1848, nelle acque del fiume Americano, era stato scoperto l’oro. Gente di ogni risma, alla ricerca di guadagni facili, priva di scrupoli, smaniosa di novità si mise in marcia alla volta del nuovo Eldorado, munita di una zappa e di un setaccio. Artigiani di New York, coltivatori della Carolina e del Minnesota, cow-boy del Texas e del Montana abbandonarono le loro terre per quella "promessa" della California. Abbagliati dallo stesso miraggio, migliaia di soldati e di marinai disertarono. Nemmeno i paralitici seppero resistere al richiamo di tanto ben di Dio e piantarono le tende sulle rive del fiume Americano e dei suoi affluenti. Nessuna febbre fu più contagiosa di quella dell’oro. Nessuna suscitò più entusiasmo, alimentò più illusioni, fece più vittime. L’America sembrò impazzire e visse la sua più esaltante, forsennata avventura. Il cercatore d’oro divenne uno dei simboli dello spirito di conquista del Nuovo Mondo e fornì il modello del pioniere rude, sanguigno, turbolento, di poca fantasia e di punto umorismo. Il suo contributo all’epopea del West fu enorme. Nel bene e nel male. Roberto Gervaso