Pierangelo Sapegno, La Stampa 15/12/2008, 15 dicembre 2008
Il signor Franco Ibba in fondo è morto come aveva sempre avuto paura di morire: ucciso dai banditi
Il signor Franco Ibba in fondo è morto come aveva sempre avuto paura di morire: ucciso dai banditi. Solo che è successo quando pensava che questo incubo fosse ormai finito. Per una vita aveva lavorato all’agenzia del Banco di Sardegna nella piazza principale di Ilbono, vittima spaventata di un mucchio di rapine. Era diventato direttore e poi era andato in pensione. Prima di chiudere la porta del suo ufficio, aveva brindato con i suoi colleghi: «Resterò sempre uno di voi», aveva detto. Aveva comprato una casa proprio di fronte alla banca. E in pochi anni aveva assistito dalla sua finestra ad altre cinque rapine clamorose, con porte sfondate, sparatorie, motori rombanti e fughe western. Il lunedì 21 agosto del 2006, l’aveva svegliato un gran clangore: i banditi avevano abbattuto la vetrata dell’istituto con una Fiat Uno lanciata contro. Quando scappavano lui gli aveva gettato addosso un vaso di fiori e poi aveva sparato con il suo fucile. Era morto Gianluigi Mameli, 33 anni, di Ilbono, colpito in pieno da un proiettile alla schiena. Ai carabinieri che erano andati a prenderlo, disse che non ne poteva più: «In vent’anni non ho mai reagito una volta. Doveva succedere questo per farli smettere?». Due anni dopo, ieri mattina i banditi sono tornati: l’hanno chiamato sotto casa, l’hanno obbligato a salire su una macchina e l’hanno portato nei campi. Poi l’hanno ucciso mentre era in ginocchio. Il corpo è stato abbandonato in un suo podere, vicino al campo sportivo di Ilbono, un piccolo centro dell’Ogliastra, sulla costa centro-orientale della Sardegna, una figura scura lasciata con le braccia aperte e la guancia schiacciata sul fango, nel terriccio. L’hanno visto dei vicini che passavano dalla strada per andare in città. Hanno chiamato i carabinieri e loro hanno pensato subito a una vendetta: un rituale barbaricino che segna la vita di chi resta, nell’imminenza del Natale, proprio per sovrapporre il dolore di una morte alla gioia della festa. Franco Ibba aveva 73 anni. Era un uomo piccolo, con il volto solcato da rughe profonde, come un campo arato. Per i fatti del 2006 era stato rinviato a giudizio: eccesso colposo. La vittima, Gianluigi Mameli, era un suo compaesano, e lui lo conosceva. Ma quel giorno non poteva sapere chi era. I tre banditi, tutti mascherati con i cappucci, erano arrivati nella piazza quasi deserta su una Fiat Uno, che aveva un grosso palo che sporgeva dal bagagliaio. Avevano girato la macchina con il muso rivolto verso la casa di Ibba, dall’altra parte dello slargo. Poi l’avevano lanciata in retromarcia contro l’ingresso dell’agenzia del Banco di Sardegna. Il portone blindato si era spalancato facendo un gran fracasso di vetri rotti e ferri esplosi. Ibba si era affacciato alla finestra, richiamato da quel fragore. Due banditi erano entrati nel locale, dove c’erano un impiegato e la direttrice. Quelle scene, il pensionato Ibba Franco non le aveva solo viste tante volte: lui le aveva vissute, ne aveva sofferto il terrore, non solo per sé, «ma anche per gli altri», come raccontò ai carabinieri che erano andati a prenderlo, bussando alla sua porta per chiedergli se aveva dei fucili in casa. «Ne ho sei», aveva risposto lui. «Tutti denunciati». Li aveva portati nella sala, con il tavolo di noce in mezzo, ricoperto di centrini ricamati e fiori secchi nei vasi di peltro. «Ho sparato con questo», disse. All’inizio gli inquirenti avevano pensato che i banditi si fossero sparati da soli fra di loro, mentre si coprivano la fuga. Non era saltato fuori un testimone che accusasse il pensionato Ibba Franco di aver sparato ai rapinatori. Qualcuno aveva solo raccontato del vaso di fiori che gli aveva lanciato contro e che si era schiantato nel riverbero colorato del parabrezza, come una esplosione di impotenza. Soltanto una settimana dopo gli uomini della scientifica avevano fatto i calcoli balistici e avevano capito che il colpo non poteva venire che dall’alto. Forse era lo stesso signore che aveva lanciato i fiori: la direzione era la stessa. Ai carabinieri venne ad aprire questo uomo piccolo, «con una leggera striscia di barba che il rasoio aveva omesso di radere e che mostrava dei peli ispidi e bianchi», un vecchietto così inoffensivo, con le labbra sottili raccolte in una durezza appena increspata. Qualche mese prima era già successo di nuovo sotto casa. La stessa scena, ma era quasi mezzogiorno, e c’era sua moglie che era fuori. Aveva avuto una paura dannata per lei. Erano venuti con una macchina, e avevano sfondato la vetrata. Poi se n’erano andati via con dei sacchi pieni di 80 mila euro dopo 10 minuti, durante i quali il pensionato Ibba Franco aveva disperatamente pensato di scendere sotto per cercare la sua compagna. Ma mentre sgommavano sulla macchina, lui era ancora lì affacciato al balcone con la sua paura. Lei era rientrata a casa un’ora dopo, quando il cuore gli era finalmente sceso al suo posto. Quel 21 agosto, invece, la moglie era di là in camera. Ma quell’ansia e quella rabbia erano le stesse. Si sporse dal balcone, guardando sotto. Uno dei banditi gli puntò la pistola e gli urlò di tornare dentro: «Levati di qui o ti sparo!». E’ per questo che gli era presa l’ira, raccontò poi ai carabinieri, perché dopo una vita che aveva sempre dovuto fare quello che volevano loro, che aveva alzato le mani e che aveva chiuso il cuore, dopo una vita passata a ubbidire alla sua paura, non ci aveva più visto. Era corso in sala e aveva preso il fucile che stava dentro al mobile con la porticina di vetro, quello che aveva mostrato agli agenti, quello che aveva puntato dalla finestra sparando contro la sua ossessione. Da allora non c’era stata più una rapina a Ilbono. Come se anche lui fosse diventato la stessa ossessione dei suoi banditi. Stampa Articolo