Luigi La Spina, La Stampa 14/12/2008, 14 dicembre 2008
SONDAGGIO IN PIEMONTE SULLE INTENZIONI DI VOTO (LA STAMPA)
MARCO CASTELNUOVO
TORINO
Il dato che più sorprende è quello che non c’è. Ovvero che quasi un elettore piemontese su quattro ha deciso di non andare più a votare alle prossime elezioni. Il sondaggio di «Contacta» per La Stampa sulle intenzioni di voto in Piemonte mette in luce che la pazienza degli elettori è finita. Non è questione di destra o di sinistra nè è legata a contingenti misure del governo o alla crisi sulla questione morale che ha investito il Pd. un rifiuto totale della politica, una disaffezione che c’entra piuttosto con la crisi economica e davanti alla quale la politica sembra impotente. Chi ha svolto il sondaggio ha scoperto che ben 22 persone su 100, se si votasse domani, rifiuterebbe la scheda. Al quale va aggiunto un altro 20% di indecisi se andare a votare o no e, nel caso, per quale partito votare. Insomma, un «mercato elettorale» come lo chiamano i politologi, che supera il 40% degli aventi diritto.
L’astensionismo questa volta non ha «colore». L’elettore non punisce i partiti al governo nè scappa dalla barca dell’opposizione che affonda. Non premia (o perlomeno non premia come in altre occasioni) partiti di protesta, nè si rifugia nei leader carismatici che pure la regione ha, tra sindaci e amministratori locali.
Se si votasse domani, il Piemonte premierebbe il Popolo della libertà con il 34,4% dei voti, lo 0,4% in più delle politiche di aprile. Il Partito democratico scenderebbe dal 32,5% al 30% mentre la Lega si confermerebbe terzo partito con il 13,9%. Crescerebbe di un altro punto e mezzo rispetto a otto mesi fa esatti, quando si votò per le elezioni politiche. Il dato dei partiti che componevano la defunta Sinistra Arcobaleno dimostra due cose: che il cartello della sinistre unite non è proprio entrato nella testa e nel cuore degli elettori e che sarà molto dura tornare alle percentuali di una volta.
Torino resta una roccaforte per il centrosinistra, seppur leggermente più fragile, vuoi anche per l’inconsistenza del centrodestra nel capoluogo regionale. Il Pdl infatti supera abbondantemente il 36% in tutte le province piemontesi tranne che a Cuneo (dove però è fortissima la Lega) e appunto Torino, dove si ferma al 31%.
La rossa provincia di Torino resta sempre più un puntino nel mare azzurro-verde del centrodestra. Il Pd è lontanissimo dalla soglia del 30% in tutto il resto della Regione. Precipita a Cuneo, dove finisce al 22% (-4% rispetto al 13-14 aprile come, del resto a Novara, Vercelli e Biella).
Poi c’è il capitolo Lega. A differenza delle precedenti consultazioni di questo tipo, il Carroccio cresce, ma meno rispetto a prima. Evidentemente, paga lo scotto di essere al governo e di non essere più considerato un partito solo di protesta.
E Di Pietro? più forte nelle città che nelle campagne: il suo è considerato il partito in grado di incanalare maggiormente la protesta: alla luce di ciò, sorprende che l’Italia dei Valori cresca (soprattutto a spese del Pd) ma non abbia convinto parte di quel 20% di disillusi che si rifugiano nel non-voto. L’onda lunga della Casta ha travolto anche lui.
COMMENTO DI LUIGI LA SPINA
Le notizie sono due e il campanello d’allarme suona per entrambi gli schieramenti politici. La prima riguarda il distacco, in termini quantitativi assolutamente straordinario, tra i cittadini e i rappresentanti in Parlamento. La sorpresa è amara soprattutto per i partiti di governo.
Una sorpresa amara se è vero che, nel Nord-Ovest del Paese, un elettore su quattro ha deciso di non andare più a votare, e questo impressionante dato è equamente distribuito tra gli elettori della maggioranza e quelli dell’opposizione. A otto mesi dal voto, infatti, non solo è comprensibile che i simpatizzanti del centrosinistra non abbiano superato la depressione post-sconfitta. Ma i travagli del gruppo più forte in quella parte politica, il Pd, sono tali che anche il più granitico ottimista non potrebbe negare di sentirsi scoraggiato.
Singolare è, invece, che la delusione contagi anche una quota così ampia degli italiani che hanno votato per il centrodestra. Un fenomeno, tra l’altro, che tocca un elettorato, quello del Nord-Ovest, tradizionalmente poco mobile nei suoi orientamenti, meno emotivamente abituato ad alterare le proprie convinzioni secondo le contingenze del momento. Al contrario, per esempio, dell’atteggiamento politico, molto più «ballerino», che si manifesta, da sempre, nelle regioni meridionali.
probabile che la crisi economica, che finora sembra incominciare a incidere sulle tasche dei cittadini soprattutto nelle aree industriali, alimenti una sfiducia generalizzata. Ma il dato del sondaggio potrebbe anche suggerire una certa insoddisfazione, un sentimento di speranze tradite, per come il governo ha risposto, finora, alle attese di coloro che l’hanno votato. Nella sensazione, insomma, che i provvedimenti per affrontare le emergenze dell’economia non siano tali da rassicurarli.
La seconda notizia, invece, costituisce per la sinistra non un campanello d’allarme, ma un suono di campane a martello, come quello che avvisava i paesani dell’imminente invasione dei nemici. Se anche nella roccaforte «rossa» di Torino e provincia, ormai, il centrodestra è quasi a un solo punto di distanza nelle percentuali di voto espresse dal sondaggio, le preoccupazioni di Veltroni e compagni dovrebbero indurli a risposte meno dilatorie, vaghe e persino sprezzanti rispetto alla cosiddetta «questione settentrionale».
Se vogliamo uscire dalle ipocrisie e dagli eufemismi, la situazione del Partito democratico, vista dal Nord, è sintetizzabile in poche righe. In questa zona del Paese, il Pd è visto come un «partito romano», con una base elettorale nel Centro Italia e con una forza clientelare e assistenziale in alcune città del Sud. Un partito dove i litigi tra i dirigenti non svelano contrasti ideali e politici, ma il desiderio di conservare e, possibilmente, aumentare il potere che ciascun capocorrente detiene. Unico motivo per non ammettere due verità dolorose, inaccettabili e contraddittorie. La prima è il fallimento dell’unione tra gli eredi dei filoni più importanti della cultura politica del secondo Novecento italiano, quello comunista e quello cristiano-democratico. La seconda è l’assoluta mancanza di alternative, almeno quelle concrete, per il centrosinistra rispetto alla via intrapresa e, quindi, la costrizione a continuare nell’esperimento, fin qui assai deludente.
Ma l’aspetto più curioso è che la dirigenza nazionale del Pd sembra aver accettato questo stato di fatto e, con una certa rassegnazione, dia per persa, ormai, la partita nel Nord e punti al voto «mobile» del Sud. Nell’ingenua speranza che, come è successo in passato, il suffragio meridionale possa costituire l’ago della bilancia per la vittoria nazionale. Insomma, che un ipotetico asse centro-meridionale riesca a sconfiggere il Settentrione, ormai passato definitivamente al nemico.
Come si possa pensare di candidarsi alla guida del Paese in opposizione alla parte più socialmente, economicamente e culturalmente evoluta, nell’Italia del Duemila, è già un azzardo, incredibile anche per il pensiero politico più spregiudicato e avventuroso. Ma che si possa immaginare di attuare il progetto senza le tradizionali, forti e maggioritarie presenze in alcune grandi città del Nord, da Torino a Genova fino a Venezia, è, poi, del tutto misterioso. Vorrebbe dire trasformare il partito che raccoglieva tradizionalmente la gran parte dei ceti più coinvolti nel processo di trasformazione industriale e, più in generale, economica, dell’Italia nel secolo scorso in un cartello di difesa conservatrice, con una maggioranza di pensionati impauriti e intellettuali arrabbiati.
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