Edmondo Berselli, la Repubblica 14/12/2008, 14 dicembre 2008
Sta diventando un´idea piuttosto diffusa l´opinione che Azzurro sia il vero inno nazionale degli italiani
Sta diventando un´idea piuttosto diffusa l´opinione che Azzurro sia il vero inno nazionale degli italiani. l´argomento centrale del libro di Fabio Canessa Azzurro, sottotitolo Conte, Celentano, un pomeriggio?, che l´editore Donzelli manda in libreria in questi giorni (116 pagine, 16 euro). Ma dietro un´idea collettiva c´è sempre un problema. E nel caso di Azzurro, canzone che festeggia i suoi primi quarant´anni, in sorprendente e antitetica coincidenza con il Sessantotto, il problema è soprattutto di attribuzione. Sotto questo aspetto il libro di Canessa è chiaro: messe agli atti le testimonianze, brillanti, che l´autore porta a suffragio dell´importanza sociale della canzone di Paolo Conte, da Renzo Arbore a Dario Fo, da Stefano Bollani a Giulio Giorello, ecco che il problema viene fuori imponente, forse irrisolvibile, e riassumibile in una sola domanda: di chi è Azzurro? Facile, di Paolo Conte, lo stranoto avvocato di Asti. Quello della macaia e della milonga. E invece no, magari fosse così facile. Lo stesso impianto del saggio di Canessa dimostra l´esistenza di un monumentale problema di attribuzione, dal momento che è diviso in tre parti fondamentali: una dedicata ad Adriano Celentano, la seconda a Conte, e infine l´ultima, che complica tutto, centrata sulla figura dell´autore del testo, Vito Pallavicini. Pallavicini rende tutto più complesso perché è la parte eccentrica del tutto. Celentano infatti è facile da mettere a fuoco, anche per ciò che riguarda l´interpretazione di Azzurro. Sente quasi medianicamente la canzone, con quella musica che «va su mentre credevo che andasse in giù» e viceversa, come disse a Conte dopo averla ascoltata. E la canta alla sua maniera, con Conte felicissimo di sentirla eseguire da lui, un cantante con una voce unica, e che nelle canzoni "parla" un italiano realistico, non le finzioni linguistiche dei cantanti qualsiasi. Per Paolo Conte, che all´epoca è ancora un autore di canzonette, un facitore di successi, capacissimo di combinare la sua sensibilità di musicista con qualunque moda si presentasse nell´ambiente, passando dal beat al melodico senza problemi, Celentano è praticamente perfetto nel dare voce a quella marcetta allegra e insieme malinconica, che allinea reperti marittimi e memorie di parrocchia e d´oratorio, il celebre «neanche un prete per chiacchierar». Gli automatismi di Celentano introducono un sovrappiù di distrazione, di nonchalance stralunata che contribuiscono a fare del brano una "cosa" familiare, domestica, intima anche se contornata da un imprendibile alone di esotismo. Il problema esplode con il ritratto di Vito Pallavicini, che comporta uno stravolgimento ermeneutico formidabile. Vale a dire, quale sarà la ragione per cui tutti, diconsi tutti, attribuiscono Azzurro, la sua atmosfera, il suo clima intellettuale, il suo gozzanismo sradicato, al musicista Conte, quando invece l´invenzione del pezzo si deve al non sufficientemente considerato paroliere Pallavicini? Il quale aveva caratteristiche non da poco. Basta scorrere la produzione di questo stacanovista della canzone per trovarci diversi capolavori minimi ma fondamentali per la musica italiana, a cominciare da Insieme a te non ci sto più, anche quella scritta in coppia con Paolo Conte, e destinata a diventare, dopo l´interpretazione di Caterina Caselli, una di quelle canzoni atemporali, che durano sempre, e sempre emozionano per ragioni insieme chiarissime e oscure, quindi più attinenti ai misteri della poesia che alla prosaicità del lavoro di paroliere. E allora? Pallavicini, scomparso nel 2007, è stato l´autore di tremila canzoni, ne ha portate a Sanremo centosedici, e se si può indicare una sua specializzazione la si può trovare forse in canzoni fondate su invenzioni lessicali, come l´ossimoro di Ghiaccio bollente per Tony Dallara, o la trovata surrealista e "piena di elle" di Le mille bolle blu per Mina; senza dimenticare canzoni impegnative e fortunate nel mondo come Io che non vivo senza te di Pino Donaggio o il rhythm´n´blues all´italiana di Deborah, scritta per il «negro bianco», come si diceva allora, Fausto Leali (e non dimentichiamo la strepitosa Tripoli ?69 di Patty Pravo, nonché la romanticissima Amore scusami di John Foster). Una volta che il mistero si è infittito, nulla vale a scioglierlo. Lo stesso Canessa fa il possibile per lasciarlo in sospeso, affollando il suo saggio di informazioni preziosissime per i collezionisti di curiosità e non di rado inedite, tanto che il suo libro risulterà una fonte primaria in materia di musica, e non soltanto riguardo alla genesi di Azzurro. Ma, dietro i dettagli, forse la tesi implicita è che, partorita dalla personalità di tre talenti diversi, la canzone è stata composta e ricomposta dai milioni di italiani che l´hanno canticchiata. Per questo è diventata una canzone-inno, molto più che popolare, una canzone egemonica. Ed è possibile che a ogni ascolto, ancora oggi, riveli agli italiani qualcosa di sé che ancora ignorano: quindi, semplice stregoneria di una musica, infinita meraviglia e magia di una canzone.