Andrea Nicastro, Corriere della Sera 14/12/2008, 14 dicembre 2008
DAL NOSTRO INVIATO
HERAT (Afghanistan) – Vicino alla base militare italiana di Herat, in Afghanistan, c’è un alberghetto. Somiglia più a una topaia che a una locanda e non sembra neppure avere un nome. Sulla porta, in una bacinella arrugginita, bruciano tizzoni di carbonella che servono a cucinare spiedini di pecora duri come sassi. L’interno prende luce solo dall’ingresso e nella stanza, cinque metri per cinque, i tappeti hanno perso colore, ma conservano gli odori di tutte le calze che li hanno calpestati. Qui si mangia, si dorme e si tratta con chi può farti arrivare in Europa. Per cominciare servono trecento dollari e si arriva clandestini in Iran, la prima tappa.
Si può partire anche da Nimruz, trecento chilometri a sud: costa qualche dollaro meno ed è anche più veloce. Basta una notte a piedi nel deserto invece di tre giorni di cammino tra i monti. Il problema è che a Nimruz ci sono più campi minati e fili spinati che ad Herat. Tutto sommato la strada migliore sarebbe quella dei talebani, ancora più meridionale: si parte da Spin Boldak, poco lontano da Kandahar, si entra in Pakistan per poi passare in Iran lungo le rotte del traffico di eroina. Peccato che un azara o un tajiko non si sentano sicuri tra le tribù baluche che simpatizzano per Al Qaeda. Meglio i campi minati.
Se la vita non è mai stata preziosa in Afghanistan, una volta entrati nel circuito dei «polli», come i migranti chiamano i contrabbandieri di uomini, la svalutazione è totale. «Sono passato da Nimruz – racconta ormai a Teheran il 22enne tajiko Karim, afghano clandestino della provincia di Laghman ”. La prima città iraniana che si incontra è Zabol. Lì i "polli" ci affidano a un autista. Il mezzo cambia a seconda del prezzo. Io mi sono potuto permettere solo un posto tra altri nove passeggeri in una Peugeot: uno sul sedile davanti, uno accovacciato ai suoi piedi, 4 dietro e tre chiusi nel bagagliaio. Era l’autista a decidere le posizioni, quando e se fermarsi, quando e se farci proseguire a piedi, farci bere, mangiare e il resto. Con un camion avrei pagato meno: cento persone in piedi pigiate nel cassone, sotto un telo. Auto o camion filano a 120-150 all’ora a luci spente». Nella notte tra il 20 e il 21 agosto un camion che trasportava 125 clandestini afghani si è rovesciato. Correva per sfondare eventuali posti di blocco e 35 illegali sono morti, gli altri si sono fracassati le ossa. «Nel baule della Peugeot non era così male – assicura Karim ”. In velocità entrava abbastanza aria».
Comincia così, tra talebani, oppio e «passatori» spregiudicati, la nuova rotta verso il sogno del benessere europeo. Dopo le piste nel Sahara, i barconi con la prua rivolta a Lampedusa o alle Canarie, dall’Asia si sono aperti altri rubinetti e i sentieri battuti da Marco Polo e Gengis Khan portano nuove masse umane verso il vecchio Continente. Gente dal Bangladesh, dal Pakistan, dalla Cambogia, dalla Birmania, ma soprattutto dall’Afghanistan.
Dati certi sono difficili da raccogliere: spesso le polizie reimbarcano i clandestini senza segnalarli alle strutture di accoglienza, ma gli indicatori a disposizione mostrano un incremento esponenziale di arrivi. La Grecia, porta sud-orientale d’Europa, è passata da 12.500 arrivi nel 2006 a 25.113 nel 2007 e ancora di più nel 2008. Passano montagne, deserti e mari. Il Corriere ne ha seguito la rotta in mesi di inchiesta da Kabul ad Herat, da Teheran ai Kurdistan di Iran, Turchia e Iraq, fino a Istanbul, alla Grecia e ai porti di approdo di Bari, Ancona, Brindisi, Venezia. Era uno di loro il bimbo, ancora senza nome, travolto mercoledì notte a Venezia dal Tir nel quale si era nascosto. Uno dei tanti bambini, visto che l’esodo afghano riguarda soprattutto minorenni, orfani di guerra o figli di famiglie che non riescono a mantenerli. Le bambine possono andare spose, per denaro o sopravvivenza. I maschi devono cavarsela da soli. A nove, dieci anni hanno già l’età per partire.
La endemica instabilità afghana ha rimesso in movimento la popolazione dei profughi. Erano sei milioni durante la jihad anti-sovietica. Oggi sono ufficialmente meno della metà, la maggior parte in Iran, ma dall’Afghanistan altri milioni sono pronti a partire appena sarà chiara l’idea che una porta è aperta. L’Iran, poi, potrebbe cambiare politica e spingere, invece di frenare, l’esodo afghano. Per questo la solidarietà europea non si vede: più se ne accolgono più ne arrivano. La Grecia fa capire le sue intenzioni dando asilo solo allo 0,04% dei richiedenti.
A Van, in Turchia, Hussein, azara della provincia di Bamian, racconta il suo passaggio da clandestino sui monti tra Iran e Turchia. «Ho pagato tremila dollari per farmi guidare da quchakhbar
’ mafiosi – curdi. Probabilmente gente legata al Pkk e al Pejak – i due movimenti etnico-indipendentisti della zona ”. In montagna i soldati turchi ci hanno scoperto e mitragliato. Tre di noi sono stati colpiti e non sono mai arrivati a valle. Non è di sicuro la prima volta: dal sentiero ho visto decine di ossa e teschi umani. Morti divorati da chissà quali animali. Sono lì da vedere».
L’impegno dei «passatori» curdi è condurre i clandestini sino a Istanbul. Da lì si arriva facile a Smirne, sulla costa. Jalil ce l’ha fatta ed è pronto al salto verso la Grecia. Ha 13 anni e gli stessi occhi di Gengis Khan e Tamerlano. Alla sua età, in Italia, si discute sul diritto al motorino, Jalil, invece, è arrivato in Turchia da un villaggio chiuso tra montagne e deserti chiamato Jaguri, a un’ottantina di chilometri da Kabul. Anche se non ha cavalli da abbeverare il suo orizzonte mentale non è così diverso da quello degli imperatori nomadi dell’Asia centrale. Ha percorso da solo 6 mila chilometri: polizia, criminali, deserti e neve si fondono in un unico ostacolo «naturale». Gli mancano persino le parole per descrivere ciò che si sta preparando a fare. «Devo superare quest’ultimo fiume e ce l’avrò fatta. Sarò in Europa». Non sa nuotare, Jalil, e il «fiume» che gli resta da attraversare è il Mar Mediterraneo. Chi l’ha preceduto, riferisce dalla Grecia scene d’orrore. Human Right Watch denuncia la Guardia costiera di Atene abituata a «trainare i gommoni di clandestini in acque internazionali e, occasionalmente, a bucarli per provocarne l’affondamento ».
Jalil ha raccolto, probabilmente prostituendosi, gli 800 dollari che servono per un posto su un canotto a remi. «Sempre dritto, ci hanno detto che dobbiamo andare sempre dritto e arriveremo su un’isola che si chiama Mytiline. Lì saremo in Grecia, in Europa».
I numeri
La Grecia è passata dai 12.500 arrivi censiti nel 2006 ai 25.113 del 2007.
E nel 2008 sono aumentati
PATRASSO (Grecia) – Saranno millecinquecento, duemila. Afghani. Maschi. Clandestini. La Grecia non ha i soldi per rimpatriarli. La Turchia non ha alcuna intenzione di accollarsi l’onere. E allora tutti i giorni al porto di Patrasso, nell’area della partenza dei traghetti verso l’Italia, va in scena la stessa tragica pantomima. Gli afghani lasciano la loro baraccopoli, si appostano lungo l’inferriata che chiude il porto e aspettano che la polizia giri la faccia dall’altra parte. Basta un attimo, corrono verso la cancellata, si arrampicano, si infilano nei buchi della rete e scompaiono tra i Tir in attesa dell’imbarco.
Sembra un gioco, solo che i poliziotti greci, invece di toccare la spalla e dire «ce l’hai», usano il manganello, lasciano ferite e rompono le ossa. Allora un altro sistema per avvicinarsi alle navi dirette in Italia è rincorrere i camion per strada, aprire il portellone e buttarsi tra la merce. Ma è solo la prima tappa. Una volta nel porto i clandestini devono riuscire a salire sulla nave: si nascondono tra i semiassi, rischiano di finire schiacciati sotto la cabina di guida o soffocati nelle cisterne. Una sola compagnia di navigazione, la Superfast, ha una propria security. «Altre – dice Francesco Mariani, presidente dell’Autorità portuale di Bari – sono probabilmente conniventi».
«Avessi abbastanza soldi riuscirei ad arrivare in Italia – spiega nella baraccopoli afghana di Patrasso, Seid Mursha clandestino diciassettenne ”. Invece sono qui da quasi un anno. Al porto mi pescano praticamente tutti i giorni, ma sette volte sono riuscito ad arrivare in Italia. Senza fortuna, però, perché gli italiani mi hanno sempre trovato all’uscita dalla nave e rispedito in Grecia».
Il «villaggio afghano» di Patrasso è a meno di un chilometro dal porto, proprio di fianco alla pensione Delfini e ad un campo da tennis con tanto di illuminazione notturna. Gli afghani si sono organizzati. Hanno costruito una moschea, «tirato» qualche filo elettrico dai piloni pubblici e «intercettato » una conduttura d’acqua. Chi sa nuotare si lava in mare, a 200 metri dal campo. Le case, invece che di fango, come in Afghanistan, hanno un’intelaiatura di legno riciclato, pareti di cartone all’interno e teli di nailon all’esterno. C’è persino un ambulatorio di Medici senza Frontiere, una chiesa ortodossa che porta un po’ di viveri (solidarity.gr), dei negozietti e una gerarchia interna. Il malek, il sindaco, è un autonominatosi quarantenne pashtun che di notte organizza ronde a difesa del villaggio contro le incursioni di giovani greci intolleranti. Si dice sia stato lui la mente del blitz che due anni fa cacciò dalla baraccopoli chiunque non fosse afghano.
Ognuno al «villaggio» ha una storia drammatica. Chi scappa dai talebani, chi dai bombardamenti della Nato, chi dalla miseria. Sulla strada verso l’Europa, tutto sommato, sanno che non può succedergli tanto di peggio. «Restare in Afghanistan? E perché? Morirei comunque, meglio provare a cambiare qualcosa» dice Faruk da tre mesi a Patrasso. Ed è quello che pensano tutti.
Fa eccezione Ozbak Abdul Malik, 24enne azara di Baghlam. Fa eccezione perché è un ragazzo colto e preparato. Parla inglese meglio di un liceale italiano. E ama sua moglie. «Per favore aiutatemi a ritrovare Sahida, è incinta. L’ultima volta che l’ho sentita dormiva alla Piramide di Roma, ma ora spero sia in qualche ospedale italiano a partorire. Il 7 settembre eravamo riusciti ad arrivare clandestini ad Ancona, ma la polizia ci ha respinti. Un mese dopo ci abbiamo riprovato con documenti falsi, però al porto i doganieri greci hanno accettato lei e non me. All’inizio di novembre ci ho riprovato, ma i greci mi hanno picchiato, preso il telefonino e i soldi. Da allora lei non mi può più chiamare, non so più nulla. Aiutateci ». Ha anche una mail per essere rintracciato.
Medici e sindaco
Nel villaggio c’è una moschea, un ambulatorio medico e un «sindaco» che difende le baracche dai greci intolleranti
A. Ni.