Eugenia Tognotti, La Stampa 13/12/2008, 13 dicembre 2008
EUGENIA TOGNOTTI
Sta assumendo le sinistre dimensioni di una catastrofe sanitaria l’epidemia di colera in Zimbabwe che ha già provocato circa 600 vittime, con tassi di mortalità che, in alcune zone, hanno raggiunto addirittura il 20-30 per cento, stando alle non dubbie informazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quasi due secoli fa, quando quell’esotica, misteriosa malattia comparve per la prima volta in Europa e in Italia, la proporzione dei decessi sui casi diagnosticati era molto vicina a quella segnalata oggi in quel tormentato Paese. Ma, allora, a metà degli anni Trenta dell’Ottocento, anche le città più avanzate della vecchia Europa erano prive di acquedotti e di reti fognarie. E la più completa oscurità scientifica circondava l’eziologia del nuovo flagello e nessuno sospettava che a provocarla fosse un batterio, il «Vibrio cholerae», veicolato dagli escrementi umani e trasmesso soprattutto attraverso l’acqua contaminata. Malattia killer di un passato dimenticato nel mondo occidentale - grazie ai portentosi successi della batteriologia, agli interventi di salute pubblica, all’educazione all’igiene, alla disponibilità d’acqua, all’avvento di terapie adeguate - è oggi diffusa nelle zone rurali e urbane più povere del pianeta, nei campi dei rifugiati, negli alloggiamenti degli sfollati e nei sobborghi ad alta densità di popolazione: a Budiriro, infatti, quartiere sovraffollato della capitale, Harare sono stati segnalati il 50% dei casi di malattia.
Cartina di tornasole di condizioni igienico-sanitarie esplosive e di totale inadeguatezza delle strutture sanitarie, questa crisi epidemica in Zimbabwe dimostra tutta la portata delle differenze e delle iniquità nel livello di salute e nella distribuzione delle risorse tra il nostro ricco, spensierato ed egoista «pezzo» di mondo e le aree del pianeta chiuse nel circolo vizioso povertà-malattia. Le grandi speranze coltivate nel fervido secondo dopoguerra sembrano oggi più lontane che mai. Tra la fine del conflitto e gli anni Settanta, la diffusione di sistemi di assistenza sanitaria, parallela ad uno spettacolare miglioramento degli indicatori di salute, primi tra tutti la mortalità infantile e la speranza di vita, parvero aprire un periodo in cui la diffusione della salute e l’accesso alle cure, divenuti diritti positivi, apparivano come un obiettivo a portata di mano. Tanto che l’organizzazione Mondiale della Sanità si spinse fino a lanciare il celebre slogan «Salute per tutti nell’anno Duemila». In quel clima di fiducia e di speranza, un grande storico come Arnold Joseph Toynbee scrisse che il XX secolo era destinato ad essere ricordato «non come un’epoca di conflitti politici e di invenzioni tecniche, ma come l’epoca nella quale la società umana osò pensare alla salute dell’intero specie umana come un obiettivo raggiungibile».
Nessuna profezia ha trovato una così drammatica smentita: non solo si allontana sempre più il traguardo della salute per tutti, ma sono cresciute le differenze tra il nord e il sud del mondo. Il futuro appare sempre più problematico, in particolare per quanto riguarda la risorsa acqua, destinata a diventare sempre più scarsa per effetto della siccità, delle inondazioni e dell’aumento del livello dei mari.
Il drammatico grido d’aiuto che giunge da quel Paese, messo in ginocchio da una catastrofica vampata di colera, pone il mondo industrializzato di fronte al carattere iniquo della disuguaglianza nell’accesso ai beni primari, all’acqua, alle cure, all’assistenza sanitaria. Oggi, come nel passato, l’immensa, irrisolta esigenza di salute è - per riprendere le parole di Martin Luther King - la «più inumana» tra «tutte le forme di ineguaglianze» che affliggono le società povere, dominate e mal governate.
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