Note: [1] Oscar Giannino, Libero 7/12; [2] La Stampa 13/12; [3] Giuseppe Berta, La Stampa 13/12; [4] Giuliano Da Empoli, Il Riformista 10/12; Maurizio Molinari, La Stampa 13/12; [5] Federico Rampini, la Repubblica 13/12; [6] Maurizio Molinari, La Stampa 1, 13 dicembre 2008
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 15 DICEMBRE 2008. I
numeri del mercato dell’auto sono terribili. [1] La situazione è particolarmente grave negli Stati Uniti, dove le cosidette ”big three” di Detroit danno lavoro, con l’indotto, a oltre quattro milioni e mezzo di persone. Le vendite della General Motors sono crollate del 45% ad ottobre e del 41% a novembre, in Borsa il crollo è stato in un anno pari al 90%; le vendite Chrysler sono scese del 35% ad ottobre e del 47% a novembre (la società non è quotata in Borsa); Ford, che sta un po’ meglio, ha perso il 30,2 e 30,6% delle vendite e l’82% in Borsa. [2] Nel prossimo gennaio per Chrysler e GM potrebbe essere inevitabile il ricorso al Chapter 11, la procedura di fallimento concordata. [3]
Gli americani discutono da settimane se i tre colossi meritino di essere salvati con il denaro dei contribuenti. In teoria no, ha ammesso il prossimo presidente Barack Obama: si sono comportati in modo troppo irresponsabile, continuando a sfornare Suv a più non posso, invece di concentrarsi sul risparmio energetico e sulle fonti alternative come i loro concorrenti giapponesi. [4] Molti, in testa il premio Nobel dell’economia Joseph Stiglitz, pensano che sarebbe meglio lasciarli fallire. Il Chapter 11 non sfocia necessariamente nella liquidazione finale, è un’amministrazione controllata che impone sacrifici severi a tutti - azionisti, creditori, dipendenti - per resuscitare un’azienda resa più snella. Federico Rampini: «La logica degli ”aiutini” statali, secondo Stiglitz e altri, è un’escalation perversa che distrugge denaro pubblico perpetuando una gestione incompetente». [5]
La settimana scorsa la maggioranza democratica del Congresso e l’amministrazione Bush hanno raggiunto un accordo sul piano di salvataggio dell’auto. Approvato mercoledì dalla Camera dei rappresentanti, il piano è stato però bocciato giovedì al Senato per la forte opposizione dei repubblicani (e alcune defezioni tra gli stessi democratici). Motivo: il mancato accordo sui tagli salariali. Passate poche ore, Bush ha fatto sapere che nella peggiore delle ipotesi i soldi necessari per il salvataggio verranno presi dai 700 miliardi destinati a sostenere le banche. [6] Alla fine le ”big three” avranno a disposizione 14 miliardi di dollari. I soldi non sono regalati: il sistema approvato alla Camera prevede prestiti al tasso del 5% per i primi tre anni e del 9 per i due successivi. [7]
Le condizioni per riscuotere sono dure: tetti ai compensi dei manager, zero dividendi agli azionisti ecc. [8] Il governo dovrebbe ricevere titoli o azioni pari a circa il 20% dell’ammontare prestato alle singole aziende: nel caso di General Motors la capitalizzazione sul mercato è di 3 miliardi di dollari, il presidente Rick Wagoner chiede 10 miliardi di prestititi, dunque il governo andrebbe a possedere titoli per 2 miliardi, divenendo di fatto il maggiore azionista. [8] Il New York Times: «Se non è nazionalizzazione, ci è vicina». [9]
Il sistema prevede la figura del ”supervisor” per tutta la produzione automobilistica di proprietà statunitense, un ”car czar” (zar dell’auto) in grado di decidere il fallimento di una delle tre società se entro il 31 marzo non fosse presentato un progetto di ristrutturazione «attendibile». Poiché lo zar autorizzerebbe ogni spesa superiore ai 25 milioni di dollari e il lancio di nuovi modelli e potrebbe imporre la costruzione di mezzi di trasporto pubblico invece che privato o la produzione di nuovi modelli a basso consumo o ecologici (ibride o elettriche), si dice che quello americano sarebbe in pratica un commissariamento dell’attività industriale. [7]
Poiché gli aiuti sono offerti soltanto alle imprese a proprietà Usa e non a quelle operanti sullo stesso terrirorio (Toyota, Honda, Bmw, ecc), la mossa statunitense, si dice, cambierebbe le regole del gioco del libero mercato globale. Piccioni: «La ragione dell’intervento è certamente ”buona” (salvare l’occupazione ”in un paese solo”), ma non prevede concertazione globale con i paesi competitors. L’intero edificio del ”libero commercio” costruito negli ultimi 20 anni è improvvisamente a rischio crollo, perché gli interessi – in questo caso sociali – del paese egemone sono considerati prevalenti su quelli altrui. Ma ogni altro paese rilevante sul piano economico può legittimamente dire altrettanto». [7]
Per ogni ora di lavoro di un operaio sindacalizzato (cioè rappresentato dalla Uaw, united automobile workers ) le big three spendono 73$, di cui 40 sono la paga effettiva, ovvero il salario inclusi straordinari e vacanze; 15$ servono per i ”benefits”, ovvero assicurazione sanitaria e pensione. Sommando si arriva a 55$, il compenso orario della forza lavoro sindacalizzata di Detroit, circa il doppio di quello di un operaio americano medio, 10$ più di un operaio impiegato presso Honda o Toyota (non sindacalizzate). Per arrivare ai 73$ pagati dalle big three, vanno aggiunti i costi dei lavoratori pensionati, ripartiti sul monte ore totale della forza lavoro in attività. Avendo molti meno pensionati da mantenere, Honda e Toyota finiscono con l’avere un costo del lavoro sensibilmente più basso (48$). [10]
Il lavoro costituisce il 10% del costo totale di un auto: se le industrie Usa spendessero quanto le rivali giapponesi, il risparmio ammonterebbe ad 800$ per veicolo. Secondo uno studio dell’International Motor Vehicle Program, oggi un’auto prodotta dalle big three viene venduta con uno sconto medio di 2500$ rispetto ai rivali: ciononostante, tale è la differenza di qualità che molti americani non vogliono saperne di acquistarla. [11] Nelle settimane scorse Gm, Ford e Chrysler avevano chiesto 34 miliardi, secondo gli esperti gliene servirebbero 125. L’analista americano Michael Robinet: «La verità è che i 14 miliardi chiuderanno solo una falla e permetteranno ai gruppi di arrivare, al massimo, fino a marzo. Ecco perché le tre case stanno preparando il cosiddetto piano B nel quale potrebbe rientrare la fusione tra Gm e Chrysler». [12]
Entro pochi anni nel mondo resteranno sei grandi gruppi automobilistici con una produzione sopra i cinque milioni di veicoli l’anno (livello attualmente raggiunto da Gm, Toyota, Ford, Volkswagen, Renault-Nissan). [13] Questa previsione, fatta la settimana scorsa da Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, ha suscitato allarme perché in questo scenario l’industria di Torino, producendo un paio di milioni di vetture l’anno, non potrebbe sopravvivere se non fondendosi com un gruppo più grande. [14] Le opzioni per un matrimonio comprendono la francese Psa Peugeot Citroen ma anche un’intesa a tre Fiat-Psa-Bmw, tutti gruppi con azionariati di famiglia. Il Financial Times: «Queste possono sembrare ipotesi strane ma, dopo tutto, fino a pochi mesi fa, si poteva pensare lo stesso della nazionalizzazione delle banche». [15]
«A crisi eccezionale, risposte eccezionali». Raffaella Polato: «Nasce da qui quella che lo stesso Marchionne probabilmente definirebbe una conversione ”a U”. Ha sempre escluso, per l’auto, un’alleanza azionaria e i fatti del ”vecchio mondo” gli davano ragione. Non c’è stato quasi matrimonio, nel settore, che abbia funzionato, sono tutti falliti. Pagavano invece gli accordi mirati. Quelli su singoli prodotti, piattaforme, progetti. Quelli che per questi quattro anni Marchionne ha chiuso a ritmi record e con successo. Ora è lui a dire che non bastano più. Perché è il ”vecchio mondo”, che non c’è più». [16]
Dopo i fallimenti degli ultimi dieci anni si riaprono le porte alle politiche di integrazione. Giuseppe Berta: «Le integrazioni tipo Fiat-Gm, Daimler-Chrysler erano state studiate sui vecchi assetti. Non tenevano conto che il mercato stava cambiando in modo radicale, che sulla scena - dalla Cina e dall’India - stavano facendo irruzione nuovi attori. Sono cambiati i confini: tutti i grandi operatori devono adeguare le loro strategie alla nuova realtà». Cosa vuol dire in concreto per la Fiat? «Vuol dire partecipare alla costruzione di un nuovo grande gruppo che abbia radici in Europa, ma anche una proiezione di business su scala mondiale». [17]
Secondo Marchionne per troppi anni i grossi costruttori di auto si sono comportati come fossero dei Neiman Marcus, la catena americana di grandi magazzini di lusso, mentre in realtà sono dei Wal-Mart, la più grande catena di supermercati del mondo specializzata in prodotti a basso costo. Quelli che Marchionne chiama ”i Wal-Mart dell’auto” (Fiat compresa) «devono convenire che in futuro sarà richiesto un nuovo modello di business». Vanni Cornero: «Marchionne paragona le auto ai computer dove i vari componenti, prodotti da fornitori altamente qualificati e specializzati, vengono assemblati e personalizzati da aziende-marchio». [18]
Un utilizzo razionale delle piattaforme su cui si costruiscono le nuove vetture, come quelle che la Fiat ha in Polonia (Cinquecento, Panda, Ka-Ford) e in Turchia (il Fiorino anche per Peugeot), consente sinergie, risparmi, volumi in grado di far competere i soci in un mercato ferocemente selettivo. La Fiat, inoltre, è all’avanguardia sui motori. Campetti: «Di motori - e di alcune tecnologie, nel settore elettronico della componentistica - del Lingotto si è già parlato a proposito dei progetti di sviluppo degli accordi con l’indiana Tata. E se fosse proprio Tata il possibile socio-acquirente delle quattro ruote italiane?». [14]
Corre voce che la cinese Changan potrebbe acquistare la Volvo messa in vendita dalla Ford. Rampini: «Le case cinesi hanno una solidità apparente dovuta al fatto che lo Stato è sempre rimasto azionista. Ma sono sei i produttori made in China e sono troppi anche loro, in una fase in cui perfino il ceto medio di Pechino e Shanghai ha paura e rallentano di colpo gli acquisti di auto. L’euforia che all’inizio dell’anno in India aveva salutato il colpo di Tata - l’acquisto di Jaguar e Land Rover, due trofei dell’ex potenza coloniale inglese - è un lontano ricordo. Oggi il gruppo Tata tradisce i primi segnali di stress finanziario. Il futuro forse appartiene comunque a loro, ai produttori cinesi e indiani che hanno vasti mercati interni e vantaggi sui costi. Ma in questo momento è un futuro incerto per tutti». [19]
Nessun costruttore europeo ha problemi finanziari paragonabili a quelli dei concorrenti americani. Oscar Giannino: «Perciò bisogna augurarsi che l’approccio europeo - dei produttori come dei loro interlocutori, a livello politico e regolatorio, in sede nazionale e continentale - sia e resti focalizzato su priorità e interventi assai diversi da quelli Usa. Tecnologia ad alta resa energetica e bassa inferenza ambientale, vetture e cilindrate compatte e risparmiose, ma insieme realizzate mantendendo elevati standard di stile e brand». [1] Berta: «Passata la crisi, inizierà una grande fase di sviluppo. Per l’Economist a metà secolo, nel mondo, circoleranno tre miliardi di veicoli. Vuol dire che dovranno essere molto diversi da quelli attuali. Serviranno nuovi prodotti, nuovi motori, vetture ecocompatibili. La competizione del futuro si gioca qui». [17]