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 2008  dicembre 13 Sabato calendario

Potrebbe pagare, ma non vuole. E pochi in Ecuador ne sono rimasti sorpresi. Rafael Correa, il presidente «socialista cristiano» che coltiva i rapporti con il Venezuela di Hugo Chavez e la Cina di Hu Jintao, aveva già messo in chiaro che la crisi finanziaria internazionale per lui ha un aspetto positivo: a Quito non si vedono più gli «yuppie », dice Correa, delle banche d’investimento e delle agenzie di rating di Wall Street

Potrebbe pagare, ma non vuole. E pochi in Ecuador ne sono rimasti sorpresi. Rafael Correa, il presidente «socialista cristiano» che coltiva i rapporti con il Venezuela di Hugo Chavez e la Cina di Hu Jintao, aveva già messo in chiaro che la crisi finanziaria internazionale per lui ha un aspetto positivo: a Quito non si vedono più gli «yuppie », dice Correa, delle banche d’investimento e delle agenzie di rating di Wall Street. Ieri però il capo di Stato dell’Ecuador ha mosso un passo in più per tenerli lontani: ha ordinato al governo di non pagare 30,6 milioni di dollari di interessi sul debito internazionale. Non che l’Ecuador non sia in grado far fronte alle scadenze, come accadde all’Argentina nel 2001 e allo stesso governo di Quito già altre due volte nell’ultimo quarto di secolo. Il debito attualmente è appena al 21% del prodotto nazionale e il bilancio pubblico, una volta scoraggiati gli investitori americani, dipende sempre di più dall’estrazione del petrolio. Le forti entrate da idrocarburi degli ultimi due anni sono andate in gran parte in spesa sociale, ormai il deficit cresce, ma l’insolvenza ha anche una spolveratura di politica: Correa sostiene che quelle emissioni di debito sono state confezionate dalle grandi banche americane a condizioni truffaldine e «orripilanti». Le obbligazioni definite «illegittime» valgono in tutto 3,9 miliardi di dollari. Il «default» per il presidente diventa così un’affermazione di sovranità nazionale e il crollo di Wall Street lo incoraggia nell’intransigenza. Il risultato per i risparmiatori però è diverso: Correa li sta forzando a rinegoziare al ribasso fino ad accettare una svalutazione del 60% sul valore teorico dei titoli. Il presidente punta molto sugli investimenti dalla Cina, dal Venezuela e dall’Iran. Ma da quando il prezzo del petrolio è crollato, le promesse di Teheran sono rimaste senza seguito. Federico Fubini