Roberto Seghetti, Panorama, 18 dicembre 2008, 18 dicembre 2008
ROBERTO SEGHETTI PER PANORAMA, 18 DICEMBRE
Colf, badanti e tasse fantasma
Inchiesta In Italia sono circa 1,2 milioni i collaboratori domestici ma solo un terzo compila la dichiarazione dei redditi e gli iscritti all’Inps sono appena 560 mila. Ecco come riescono a non pagare le imposte, spesso d’accordo con i datori di lavoro.
Tra colf e badanti in Italia sono al lavoro poco meno di 1 milione 200 mila collaboratori domestici. Nel fare la stima per conto di Panorama, il Censis è stato volutamente prudente. Ma anche con questo accorgimento i conti non tornano. Di tutte queste persone all’Inps ne risultano appena 560 mila, comprendendo pure chi versa i contributi per una sola ora di servizio a settimana. Per il fisco, poi, la maggior parte è sconosciuta. Secondo l’esperienza dei caf interpellati da Panorama, cioè le organizzazioni che aiutano i contribuenti a fare la dichiarazione dei redditi, appena un terzo delle colf e delle badanti con i contratti a orario più lungo presenta redditi che superano la soglia minima dell’esenzione e quindi deve versare le imposte. Per avere un’idea delle grandezze in gioco basti dire che la contribuzione per i contratti da oltre 30 ore a settimana ha riguardato nel 2007, secondo le più recenti tabelle dell’Inps, 65.219 persone, di cui oltre 55 mila stranieri. Riassunto in pochi dati, ecco quello che il direttore del Censis, Giuseppe Roma, chiama il «welfare fai da te delle famiglie italiane». Un’enorme, capillare organizzazione di assistenza, con due opposte facce: da un lato svolge una funzione essenziale, senza la quale migliaia di famiglie non saprebbero come assistere i propri anziani, come tenere i bambini, come curare la casa quando sono tutti al lavoro; dall’altro sfugge per larghissima parte alle norme sulla cittadinanza, alle regole previdenziali, agli obblighi fiscali. Ed è un fenomeno così vasto da rendere difficile qualsiasi rimedio. Dice a Panorama il nuovo presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua: «Noi assolviamo al meglio il nostro compito. Forniamo informazione e servizio, facciamo vigilanza. Ma credo che dobbiamo anche lanciare un invito ai datori di lavoro, il numero dei quali è elevato; un invito alla correttezza nei confronti di queste persone, a far emergere ciò che oggi è nascosto». I numeri, in effetti, sono impressionanti. Secondo il Censis, elaborando le indagini campionarie dell’Istat e le risposte delle famiglie sul rapporto con eventuali collaboratori domestici, si arriva alla conclusione che gli irregolari, cioè i lavoratori totalmente in nero, siano in numero più o meno equivalente, anzi leggermente più alto di quello dei dipendenti regolarmente denunciati all’Inps, sia per quanto riguarda gli italiani sia per quanto riguarda gli stranieri. Da qui si arriva a sfiorare nel complesso il milione 200 mila unità, una cifra che lo stesso Censis considera stimata in modo assai prudente e che è composta per oltre il 70 per cento da personale proveniente da altri paesi (leggere la tabella a pagina 38). Per larga parte i lavoratori totalmente in nero sono, appunto, stranieri, spesso anche senza permesso di soggiorno. Un’indagine condotta dalle Acli, una delle organizzazioni più attive in questo settore, indica che solo il 4,5 per cento dei collaboratori familiari stranieri è entrato in Italia con un visto di lavoro. La maggior parte, cioè il 63,1 per cento, ha oltrepassato i confini nazionali con un visto turistico e poi, trascorsi i tre mesi previsti, è rimasta a svolgere la propria attività ma senza permesso. Ben il 18,4 per cento non aveva alcun visto quando ha passato il confine. E il resto delle motivazioni si può dividere tra lavoro stagionale, ragioni familiari e studio. Oggi, dopo tante ondate di immigrazione, si può notare che tra coloro che sono entrati in Italia prima della regolarizzazione del 2002 il 66,6 per cento può vantare un permesso di soggiorno. Tra coloro che sono entrati dopo il 2002, solo il 41,5. Anche gli italiani, però, quanto a lavoro nero non scherzano. Dice Pina Brustolini, responsabile nazionale delle Acli colf che conosce questo settore come le proprie tasche: «Molte collaboratrici familiari sono donne immigrate senza permesso di soggiorno, ma una parte non meno rilevante è composta dalle tante donne italiane che lavorano a ore e che sono abituate da sempre a svolgere servizi presso le famiglie senza versare alcun contributo». La verità è che il fenomeno dell’irregolarità è ben più esteso del semplice nero e pervade quasi ogni meandro dei rapporti di lavoro domestico. Anche i contratti formalmente emersi, cioè denunciati all’Inps e al fisco, presentano infatti vaste zone grigie. Sempre l’indagine condotta dalle Acli rivela che moltissime colf e badanti hanno sia contratti regolari che rapporti irregolari, non dichiarati. Le italiane, per esempio, hanno solitamente diversi datori di lavoro, «sono multitasking» come dice Paolo Conti, direttore centrale dei Caf Acli, e spesso sono in regola solo per uno o due rapporti. una delle differenze di fondo tra italiane e straniere: colf e badanti italiane hanno un’età di solito più avanzata e prestano servizio presso diverse famiglie; le straniere sono mediamente più giovani e hanno più spesso un rapporto di lavoro a orario lungo, presso una sola famiglia. Anche tra coloro che affermano di non avere alcun rapporto di lavoro in nero è davvero elevata la percentuale dei casi in cui le ore di attività denunciate all’Inps sono inferiori alla realtà. Racconta sulla base della propria esperienza Pina Brustolini: «Si sa che molte collaboratrici convivono con la famiglia presso la quale prestano il proprio servizio e quindi, di fatto, lavorano 50 e più ore a settimana. Poi, però, versano contributi per 24-30 ore». Perché avviene tutto questo? Ovviamente la famiglia ha interesse a risparmiare e la badante ad avere più soldi netti in tasca. Ma l’accordo perverso tra datore di lavoro e dipendente in questo caso non spiega fino in fondo la vastità del fenomeno. Basti citare a titolo di esempio altre due ragioni che oggi sono alla base della generale tendenza all’irregolarità nel lavoro domestico. La prima riguarda la consistenza della pensione che, data la scarsa entità dello stipendio, maturano colf e badanti: dopo 30 anni di contributi pieni, magari per otto ore al giorno, si è no arrivano al minimo Inps. La seconda ragione deriva dalla provenienza geografica delle collaboratrici familiari: a differenza delle prime ondate di immigrazione, dalle Filippine o dal Sud America, oggi prevale l’arrivo di collocaboratori familiari dai paesi dell’Europa dell’Est. Ciò ha provocato un cambiamento di fondo. Tutte le indagini indicano che le nuove colf e badanti non vogliono restare qui e neppure portarsi a casa i contributi, tanto più che molti dei loro paesi di origine non hanno neppure firmato le convenzioni con l’Italia. Il loro obiettivo è un altro: mettere da parte il gruzzolo più pingue possibile in pochi anni e poi tornare dai propri cari. In altre parole, hanno interesse a incassare soldi, non contributi. La conseguenza di tutta questa irregolarità alla fine si scarica sul sistema fiscale. Spiega Paolo Conti del Caf Acli: «Il reddito dei collaboratori domestici è a tutti gli effetti reddito da lavoro dipendente. Il minimo per essere obbligati a fare la dichiarazione è pari a 7.500 euro l’anno. Se poi si hanno familiari a carico il limite sale: per esempio, con un figlio si superano i 9 mila euro e così via». Oltre queste soglie si pagano le imposte. Al di sotto, niente. Ma appunto, con tutte queste irregolarità, chi arriva a versare qualche manciata di euro? L’Agenzia delle entrate non ha dati generali: non c’è un codice che identifichi colf e badanti e dunque queste si confondono con gli altri lavoratori dipendenti. Ma Panorama ha interpellato in proposito diversi caf. Le risposte sono risultate abbastanza omogenee: da un quarto a un terzo di coloro che versano contributi all’Inps per i contratti di lavoro più consistenti arrivano a versare le imposte. Un’esigua minoranza, insomma, rispetto a coloro che effettivamente lavorano, anche tenendo conto che si tratta comunque di dipendenti a bassissimo reddito. Basti ricordare appunto che i contratti da oltre 30 ore per i quali vengono versati i contributi hanno riguardato, nel 2007, 65.219 persone, di cui oltre 55 mila stranieri. E che anche se si estende lo sguardo alla fascia oraria più popolosa, quella relativa ai contratti da 20 a 30 ore a settimana (leggere le tabelle Inps a pagina 37) si può verificare che si arriva appena a 191.824 persone (162.081 stranieri). «Di fatto è in atto nel nostro Paese uno scambio come quello che vi fu negli anni Cinquanta per la casa» commenta Giuseppe Roma del Censis. «Allora l’accordo tacito fu: fatevi la casa e noi chiuderemo un occhio. Ora l’accordo riguarda questo welfare fai da te, con la famiglia che risolve da sola i suoi problemi». Ma può essere sopportabile un tale tasso di irregolarità? Una cosa è certa. Porvi rimedio non è facile. Un esempio delle difficoltà è rappresentato da ciò che sta accadendo con l’applicazione delle norme, garantiste e di controllo, entrate in vigore a gennaio di quest’anno: da allora l’Inps può riconoscere la validità delle denunce dei datori di lavoro solo se le comunicazioni relative ad assunzioni o cessazioni del rapporto con il dipendente gli arrivano dai cosiddetti Servizi per l’impiego. Risultato? bastata questa piccola complicazione a provocare una valanga di iscrizioni in meno per il lavoro domestico e oltre 200 milioni di euro di contributi in meno da incassare.