Roberta Filippini, La Stampa 12/12/2008, 12 dicembre 2008
ROBERTA FILIPPINI
Per rompere il ghiaccio con Miuccia Prada, la stilista più celebrata e copiata del mondo, è meglio partire dall’arte. Perché per la sua Fondazione Prada farebbe quasi qualsiasi cosa, persino un’intervista. Che per lei è il massimo della fatica psicologica. Perché Miuccia, signora milanese che non si considera borghese («se non come ceto di provenienza»), aria da ragazza schiva che sa essere terribile, è proprio il contrario del personaggio che fa outing. «Non partecipo neppure ai convegni. Per me il fare è molto più ricco del parlare. Per esempio, realizzare il Double Club è stato bellissimo...».
Va bene, partiamo dall’ultima opera di Carsten Höller, finanziata dalla Fondazione Prada, a Londra: ha la forma di un vero risto-disco-bar dove si mangia e si balla tra due mondi, quello europeo e quello congolese. Tutto è doppio e tutto si tiene.
«E’ un punto d’arrivo di un lavoro intrapreso da anni, alla ricerca di un’arte che abbia senso. Sì, anche senso politico, con un forte legame alla vita. Mi faceva ridere che l’opera, in questo caso, dovesse ottenere un buon giudizio dal critico gastronomico come da quello musicale!».
Arte vissuta e che morirà tra sei mesi, quando smobiliterete il Double Club? «Potremmo ricostruirlo a Parigi. Comunque, finora si erano visti dei caffè arredati da artisti: questo è tutto un altro concetto».
Arte prima della moda?
«Sono entrambe la mia vita. La moda è l’ancora nella realtà. Oggi la globalizzazione è una grande opportunità, ma è anche molto difficile. Pensi al couturier degli Anni 50 e 60 che aveva una sola cliente, bianca e ricca. Oggi è tutto complicato. Ogni tanto mi gira la testa, qualsiasi tema va affrontato tenendo conto di tutti i mondi, e facendo la sintesi giusta».
Lei sa di essere considerata la stilista che sconcerta trasformando il trash in bellezza?
«Non è così, avrò lavorato solo un paio di volte sul concetto di brutto: negli Anni 80 ho citato i 70, e allora era difficile perché i due decenni erano anche esteticamente opposti».
Insisto: recentemente c’è stata una collezione Miu Miu tutta in nylon matelassé, proprio quello terribile delle vestagliette Anni 50.
«Io faccio moda per commentare il mondo, per rispondere a quello che succede, per cercare nell’immaginario mio e degli altri. Per quelle vestagliette, la ricerca mi è costata di più che se avessi usato cashmere sette stelle!».
E’ questa la sua idea di lusso?
«Vogliono far credere che il vero lusso sia la conservazione, non è mai stato così. Noi siamo un marchio più vecchio di altri, ma abbiamo intrapreso la strada della modernità, che non è rassicurante. Lo scopo ultimo del mio lavoro è far passare attraverso il marchio il valore della nostra intelligenza in generale. L’Europa non deve portare il verbo, ma certamente siamo popoli sofisticati, è bene valorizzarlo».
Un compito politico, in pratica: ma quando da ragazza militava nel Pci, immaginava di fare la stilista?
«Guardi che io neppure adesso so cosa farò. Da giovane facevo politica (ma ho fatto anche il mimo al Piccolo Teatro!) e l’argomento continua a interessarmi. Mi hanno offerto di candidarmi, ma non mi piace l’idea della stilista imprestata alla politica, che invece va fatta a tempo pieno. Potrei magari cambiare professione nella vecchiaia. Oggi per me lavorare con la mia Fondazione è fare attività politica, perché è fare cultura».
Si diceva che avesse conosciuto suo marito, Patrizio Bertelli…
«...in un’aula di tribunale, in una causa aziendale contro di lui… sì, conosco questa leggenda. Non è andata così naturalmente, ma è vero che ci siamo incontrati per lavoro. Nel 1977 facemmo un accordo, lui produceva le nostre cose. Poi abbiamo fuso le nostre aziende».
Parliamo dei vestiti come linguaggio di seduzione: il suo è piuttosto complicato, non le pare?
«Diciamo pure così. Comunque io mi sono sempre vestita in modo diverso dalle altre, in maniera eccentrica. Quando facevo politica, avevo il coraggio di andare alle manifestazioni vestita Yves Saint Laurent».
Per provocare?
«No, ero com’ero, vestivo come mi piaceva, senza nascondermi o camuffarmi. Il vestito quando funziona deve fare parte integrante di te».
Le sue sfilate sono una sfida ai luoghi comuni della sensualità, è d’accordo?
«E’ il più grosso complimento che lei mi possa fare! E forse è vero!».
Prada è un grande gruppo (1660 milioni di euro il fatturato 2007) ma lei sembra starsene un po’ al di sopra.
«No! Tutta l’azienda lavora per il prodotto, anch’io. E quando preparo la sfilata mi pongo molte domande. Per la prossima, il problema riguarda l’importanza di ribadire, soprattutto in un momento difficile, il patrimonio del marchio. Che per Prada è il lusso vero e la qualità vera, ma raccontati in modo che non lo sembrino tanto, che contengano intelligenza e contraddizioni».
In effetti si ha l’impressione che la sua moda cambi ma torni poi ciclicamente alle origini.
«Sono contenta se si percepisce che vado per cicli, perché nella ricerca del nuovo ho paura non si noti sempre l’essenza di Prada. Che io conosco, perché sono io!».
E’ il suo modo di essere coerente?
«La coerenza, tranne quella morale, non è necessariamente un valore. Le contraddizioni mi piacciono, la mia personalità è basata su questo, da quando ho iniziato a fare borse mescolando il nylon con il coccodrillo».
E la coerenza in amore?
«In amore sono una santa!».
Nel senso che sa sopportare?
«Bisogna essere innamorati e indipendenti. Io ho imparato a proteggermi. Non sono masochista, mi tutelo».
E con i figli?
«Sono molto tradizionale, più mamma che amica. Ma ho la fortuna di essere sempre avanti con i gusti, e questo aiuta».
l’eccentricità la vera eleganza?
«Non mi interessa l’eleganza!».
Certo la crisi pone problemi più terra-terra.
«Direi che pone problemi più grandi di me e di chiunque. Mi verrebbe da dire: magari ci fossero tanti cambiamenti, temo invece che sarà tutto uguale, solo più difficile».
E nell’azienda Prada cosa succede in questi frangenti?
«Si lavora tanto, si punta al risparmio anche come concetto mentale. La crisi fa lavorare meglio, fa andare al sodo, senza tanti fronzoli».
Mi consenta una brutta battuta: come mai ogni volta che Bertelli decide di quotare il gruppo Prada, c’è un cataclisma finanziario?
«Sarà perché noi forse non siamo fatti per la Borsa, ma non lo scriva…».
Non si preoccupi, la battuta l’ha già fatta suo marito a un convegno.