Emilio Manfredi, L’espresso 18/12/2008, 18 dicembre 2008
L’espresso, 18 dicembre Non c’è angolo d’Africa che non abbia qualcosa di interessante per la Cina
L’espresso, 18 dicembre Non c’è angolo d’Africa che non abbia qualcosa di interessante per la Cina. Ge Junjie sembra esserne la dimostrazione. L’ingegnere osserva i carpentieri intenti a costruire un nuovo ponte alla periferia di Addis Abeba e ricorda i suoi spostamenti lungo il continente. Arrivato otto anni fa da Pechino per la sua prima avventura africana, da allora l’uomo ha fatto di tutto. Dopo aver lavorato nel settore dei diamanti in Sierra Leone, ha aperto un ristorante in Congo, convinto suo fratello a mettersi in società per esportare vestiti economici dalla madrepatria. stato impiegato nel settore petrolifero in Sudan, per poi sbarcare qui in Etiopia e tornare alla sua vera professione: la costruzione di strade e ponti. Incurante di quanti sostengono che i cinesi stiano invadendo il Continente per interesse - energetico e di materie prime - l’uomo sorride e continua a ripetere docile la ragione della sua presenza: "Siamo qui per aiutare popolazioni in difficoltà", racconta Ge. In piedi su una montagna di detriti, l’uomo osserva soddisfatto gli ideogrammi sulle scavatrici e il procedere dei lavori. "Stiamo insegnando agli africani come lavorare per sviluppare le loro economie". Il connubio tra Cina e Africa aveva vissuto il suo momento celebrativo a Pechino nel novembre 2006. ’Amicizia, pace, cooperazione e sviluppo’, recitavano in quei giorni i cartelloni luminosi con cui il governo aveva tappezzato la capitale per accogliere capi di Stato e dignitari di 48 paesi africani. Danze e feste avevano travolto la normale esistenza della popolazione, in quello che è considerato il più importante meeting nell’intera storia della diplomazia cinese. "Di certo è stata un’operazione di immagine", ricorda oggi Ge Junjie, "ma è stato anche il riconoscimento di un rapporto importante e fruttuoso". Il convegno ha segnato la nascita di una partnership strategica fondata su uguaglianza politica, cooperazione economica e scambi culturali. Oltre la retorica, il presidente Hu Jintao aveva subito chiarito dettagli prosaici quanto fondamentali. La Cina ha lanciato un importante piano di investimenti in Africa da compiersi nei cinque anni a venire: l’intervento prevede prestiti agevolati per 3 miliardi di dollari, cancellazione del debito, raddoppio dell’assistenza economica entro il 2009. Ancora, Pechino garantisce educazione, sanità e tecnologia assieme a interventi nel settore agricolo e delle infrastrutture. Parole interessanti per governanti e cittadini africani, che ricevono risposte concrete ai bisogni. A margine del meeting, compagnie private e statali cinesi hanno stipulato accordi che aumentano vertiginosamente i loro investimenti in Africa. Dietro l’assistenzialismo e l’aiuto allo sviluppo, infatti, lo sbarco cinese nel continente nasconde motivazioni più concrete, che ricordano le origini della colonizzazione europea del XIX secolo. Oggi come allora, è il boom industriale a spingere verso le coste africane. L’economia cinese cresce in maniera importante, la crisi globale ha solo rallentato ma non bloccato la sua marcia. Nell’ultimo decennio i commerci con l’estero sono quintuplicati. "Per diventare una reale potenza globale, la Cina ha bisogno di continuare nella sua crescita economica", sostiene Manickam Venkataraman, docente di relazioni internazionali all’Università di Addis Abeba: "Il settore manifatturiero non può fare a meno di energia e mercati". Un bisogno che negli anni è diventato l’ossessione della politica estera cinese. Reperire minerali, prodotti agricoli, legname, ma soprattutto petrolio: sono queste le linee guida dello sguardo di Pechino verso il mondo. Con la sua incredibile ricchezza di risorse naturali, l’Africa ha ben presto catalizzato l’attenzione cinese. La presenza asiatica è cresciuta esponenzialmente, anche in termini di emigrazione dalla madrepatria (incoraggiata dal governo di Pechino, interessato ad alleggerire l’impatto della sua crescita demografica). Le compagnie petrolifere e minerarie del Dragone hanno stipulato contratti ovunque. Nei Paesi dal sottosuolo poco interessante, la Cina ha messo in piedi attività commerciali e investimenti, aprendo nuovi mercati per i suoi prodotti low-cost. I risultati di questa politica sono impressionanti. Nel 2007, il giro d’affari cinese in Africa è aumentato del 40 per cento rispetto all’anno precedente, raggiungendo i 55 miliardi di dollari. E le previsioni per il futuro, appena ritoccate al ribasso per la difficile congiuntura, prevedono comunque che nel 2010 il business sino-africano supererà i 100 miliardi di dollari l’anno. La Cina è stabilmente il secondo partner commerciale africano dopo gli Usa. Le ex potenze coloniali - Gran Bretagna e Francia - seguono a distanza. "La Cina si è conquistata il ruolo di interlocutore privilegiato dei governi locali", sostiene l’economista Bi Janhai. Il dialogo sino-africano ha messo in difficoltà i paesi occidentali, partner tradizionali. Le offerte delle ditte cinesi spesso tagliano fuori dal mercato la concorrenza europea, incapace di proporre prezzi concorrenziali. Inoltre, il rapporto diretto tra paesi considerati in via di sviluppo (la Cina ancora oggi ne fa parte) è gradito ai governi africani, che non si sentono pressati dal passato coloniale. La non-ingerenza nelle questioni di politica interna e di diritti umani dei paesi africani resta però il punto più controverso del rapporto Cina-Africa. "La Cina rispetta le nazioni africane", sostiene Yan Xiao Gang, responsabile economico dell’ambasciata cinese in Etiopia: "Non imponiamo mai la nostra linea alle controparti né interferiamo nei loro affari domestici". Pechino offre aiuti umanitari senza vincolarli a forme di controllo sulla trasparenza dei governi che li ricevono. Una differenza netta rispetto ai donatori occidentali che non gradiscono l’approccio. Ma Pechino lo persegue per via del principio di reciprocità: è altrettanto insofferente verso gli stranieri che la mettono sotto accusa per le violazioni in Tibet o nelle aree dove vivono altre minoranze. Secondo molti diplomatici occidentali, questa posizione ha rafforzato i regimi non democratici. Il caso del Sudan è emblematico: Khartoum vende due terzi della sua imponente produzione petrolifera alla Cina, che di rimando riversa enormi investimenti nel Paese e chiude un occhio sulle atrocità commesse dal governo in Darfur. " solo rispetto reciproco della sovranità", sostiene He Wenping, vice-direttrice della sezione di studi africani dell’Accademia cinese di scienze sociali di Pechino: "Qualche conflitto di interessi con le altre potenze è normale. Alla fine, l’obiettivo comune è lo sviluppo globale". La Cina parla all’Africa in maniera rassicurante, cala la sua ombra allettante e minacciosa. "Pechino compra materie prime in Africa e poi rivende prodotti finiti", afferma Moeletrsi Mbeki, vice-presidente dell’Istituto sudafricano per gli affari internazionali: " una equazione pericolosa che riproduce la vecchia relazione con le potenze coloniali. nell’interesse di entrambi trovare strategie condivise per evitare problemi futuri". Ge Junjie osserva dall’alto il procedere dei lavori di costruzione del cavalcavia che sostituirà il vecchio ponte russo, ormai troppo piccolo per reggere il traffico della capitale etiope. Prende la radio e impartisce brevi istruzioni, lentamente, in inglese. Poi resta a osservare soddisfatto le decine di operai locali. Sarà un grande ponte, non ha dubbi. Dice: "Quando lasceremo questo Continente, questa gente saprà proseguire da sola sulla via della modernità". Emilio Manfredi