Paola Pilati, l’Espresso 12/12/2008, 12 dicembre 2008
A SPASSO CON GHEDDAFI – LUNA DI MIELE LONDINESE TRA SCARONI E IL CAPO DELLA COMPAGNIA PETROLIFERA LIBICA - VIA LIBERA DEL GOVERNO ALL’ACQUISTO DEL 5-10% DEL CAPITALE ENI DA PARTE DEL COLONNELLO - IL RUOLO DI GAZPROM…
Gheddafi
Paola Pilati per "l’espresso"
Ci capiamo al volo, abbiamo caratteri simili, cinguettavano pochi giorni fa a Londra Shukri Ghanem, il capo della Noc, compagnia petrolifera libica, e Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni. Ad andare d’accordo con uno che dispone di 65 miliardi di dollari da investire (tra fondo sovrano e altri portafogli statali) e che ti rifornisce ogni anno del 17 per cento della materia prima, del resto, non ci vuole molto. E anche per i rappresentanti della Jamairia, isolata per anni dell’embargo americano, non è difficile trovarsi a proprio agio con chi ti apre le porte della quinta compagnia petrolifera mondiale, per di più a prezzi di saldo.
È per questo che lo storico ingresso di un paese produttore nel capitale del cane a sei zampe sta avvenendo in grande souplesse. A parte il malumore dei leghisti, che chiedono alla Libia di rispettare, innanzitutto, gli accordi per bloccare l’immigrazione clandestina che parte dalle sue coste, il fatto che il Lybian energy fund diventi il secondo azionista Eni raccoglie consensi.
Paolo Scaroni
"I rapporti energetici tra Libia e Italia sono sempre stati solidi", ricorda Marcello Colitti, che come esperto di petrolio ha accompagnato gran parte della storia pionieristica dell’Eni, "e i libici sono sempre stati abili a piazzare il capitale dove hanno garanzie di essere ben accetti". Più che ben accetti, visto che il via libera che formalmente oggi i libici chiedono al governo italiano per dare il via all’acquisto sul mercato di una quota del 5, ma anche del 10 per cento dell’Eni, ieri di fatto l’avevano già ottenuto.
L’intesa sull’ingresso, infatti, era stata già definita quando a ottobre Silvio Berlusconi aveva siglato a Tripoli la fine della vertenza libica con l’impegno di un indennizzo da 5 miliardi. Ora non restano che le formalità: per l’investimento i libici stanziano una cifra che va dai 3 ai 9 miliardi di euro; alla fine non ci saranno mutamenti nel consiglio d’amministrazione dell’Eni, garantiscono nel palazzo dell’Eur; il Tesoro italiano manterrà intatta la quota di controllo, al 27,8 per cento (più il 10 nella Cdp); i libici saranno investitori puramente finanziari.
Tutti questi non sono dettagli secondari. I libici, per esempio, possiedono in Italia la compagnia Tamoil, che rappresenta l’8 per cento del mercato dei carburanti e ha una attività di raffinazione in proprio a Cremona. Dopo aver cercato di venderla, con offerte da parte di Repsol, Total ed Erg per cifre sui 2 miliardi di euro, decisero di trattare in privato con il finanziere americano della Costa Smeralda Tom Barrack. Alla fine non se n’è fatto nulla e la compagnia è ancora libica. Una contemporanea presenza degli uomini di Gheddafi nell’Eni non creerebbe un certo conflitto di interessi?
Le assicurazioni date finora sembrano tacitare questi dubbi. In cambio, su quella che nella guerra coloniale di inizio Novecento fu chiamata ’la quarta sponda’, le cose dovrebbero andare per l’Eni sempre più a meraviglia: in un paese in cui le compagnie straniere fanno a botte per conquistare le concessioni di ricerca, e soggiacciono senza fare una piega alle esose royalties di Gheddafi, l’Eni dovrebbe avere un ruolo privilegiato. In realtà gli effetti a lungo termine saranno tutti da valutare e sono subordinati a una marea di investimenti italiani lì e al pagamento ai libici di più della metà del petrolio estratto.
Per ora Scaroni ha ottenuto l’allungamento per 25 anni dei contratti di ricerca, fatto che permetterà nel medio termine all’Eni di tenere invariata la produzione giornaliera a 252 mila barili equivalenti di petrolio man mano che i vecchi pozzi si esauriscono. E di mettere al sicuro i 950 milioni di barili delle sue riserve che sono in quel sottosuolo. Quanto all’Italia, che è collegata alla costa libica con un gasdotto che ci rifornisce di 8 miliardi di metri cubi di gas, stringere con un partner che ti permette di tenere acceso il paese per due mesi e mezzo all’anno (il peso totale delle forniture libiche in Italia è del 20 per cento), offre una certa sicurezza.
Quello che resta ancora in ombra è il ruolo che avrà il terzo incomodo. Chi? La solita Gazprom, il colosso russo che da un po’ di tempo è attivissimo sia in Algeria sia in Libia, dove ha fatto incetta di diritti di esplorazione. Tutti e tre, Russia più i due paesi nordafricani, rappresentano il 48 per cento dell’energia che consumiamo, come ricorda Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia.
Gazprom ed Eni hanno avviato trattative per lo scambio di giacimenti in Libia, mentre sin da aprile il ’New York Times’ dava notizia di un’intesa Eni-Gazprom per rifornire di gas l’Europa arrivando dall’Africa. Un’ipotesi che ha fatto suonare un campanello d’allarme a Bruxelles, dove il commissario per l’Energia Andris Pielbags, ha parlato del rischio di un cartello del gas dominato dai russi. I quali non si fermeranno per questo: hanno già convocato per il 23 dicembre a Mosca una riunione dei paesi produttori di gas, tra cui la Libia. Obiettivo, un accordo tipo Opec su prezzi e quote. E l’Eni, in questo contesto, che peso potrà avere?