Andresa Nicastro, Corriere della Sera 12/12/2008, 12 dicembre 2008
DAL NOSTRO INVIATO
TEHERAN – Niente cravatta, nessun lusso, anche la rivoluzione ha i suoi vezzi. Il presidente Mahmud Ahmadinejad ne è un testimonial perfetto, il giubbino floscio che indossa fin sul palco dell’assemblea plenaria dell’Onu è diventato un’icona del laico devoto. Vuol dire: «Sono un politico onesto al servizio del popolo nel nome del-l’Islam ». Eppure a Teheran dicono che la villa del suo nuovo ministro degli Interni, Sadegh Mahsouli, sia proprio questa meraviglia al nord della capitale iraniana. Niente foto, gesticola la guardia. Per sentire l’odore dei dollari, però, basta annusare l’aria di montagna. La recinzione è fatta di lance con le punte d’ottone. In quest’area, un metro quadro in condominio costerebbe 5-6mila dollari, la villa del ministro vale milioni e non è una residenza di Stato. la sfarzosa casa privata del primo ministro. I blogger iraniani sono scatenati contro di lui. Si rimbalzano l’un con l’altro la stessa favola, mai smentita dall’interessato. Eccola. Sadegh Mahsouli ha combattuto la guerra contro l’Iraq, non nell’esercito regolare, ma nelle milizie infiammate dalla fede, i Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione. Una decina di anni fa, Mahsouli lascia la divisa proprio come ha fatto il presidente. Le loro strade sembrano dividersi, uno entra in politica, l’altro in affari. Uno fa il sindaco di Teheran. L’altro compra case a 3 piani e ottiene il permesso di abbatterle per costruire torri da 25 piani.
Quattro anni fa il nuovo incontro. Mahsouli coordina la campagna elettorale di Ahmadinejad. il trionfo, ma Mahsouli va ancora per la sua strada. I suoi affari decollano. Dal mattone passa al petrolio. Apre sedi a Dubai, in Turchia, in Turkmenistan. Poi si butta nell’import. Il patrimonio dell’antico pasdaran è oggi stimato in 20 miliardi di dollari, un quinto del budget annuale dell’Iran. Ufficialmente è «solo» di 163 milioni di dollari.
«Il saccheggio dei beni pubblici è evidente – denuncia a Teheran, Saied Leilaz, celebre analista economico d’opposizione ”. Il presidente ha in mano il credito: nel 2005, in una notte, cambiò i direttori delle sette più importanti banche pubbliche. Ha in mano gli appalti statali. C’è una base pasdaran fuori città, la Khatamolanbia. Era una base logistica che, finita la guerra, si è messa a lavorare per lo Stato. Solo che da 4 miliardi l’anno di contratti, con Ahmadinejad è passata a 20. Quando un’impresa controllata dai Basiji – altra milizia d’ispirazione religiosa’ ambisce a una commessa, l’asta pubblica è sospesa. L’ha stabilito Ahmadinejad per legge.
Per consuetudine, l’Iran fissava a ogni inizio anno le tariffe doganali. Ahmadinejad, invece, le cambia quando vuole. I cellulari, ad esempio sono passati dal 5 al 65% per poi scendere al 15. Chiaro che chi ha importato 5 milioni di apparecchi proprio prima dell’aumento ha fatto l’affare. Il nome dell’indovino? Lo dicono i blogger: il ministro dell’Interno Mahsouli.
«Ahmadinejad sta creando una nuova classe sociale su cui poggiarsi per mantenere il potere » dice Mustafa Tajzadeh, il «ragioniere dei flussi elettorali » del Mosharikat, il principale partito riformista. Per lui dietro «alcune improvvise fortune» c’è una strategia politica. «Ahmadinejad è contro il sistema partitico – dice ”, non ha un suo partito e indebolisce quelli esistenti. La sua base sono i mi-litari, organizzati, capillari ed efficienti per ordine di servizio. Noi lo chiamiamo il "partito delle caserme"».
Il Mannheimer persiano comincia a elencare dal dito mignolo: «Ahmadinejad ha cercato di azzoppare la banca privata Parsian – vicina all’ex presidente Khatami, ndr ”. Poi – ed è l’anulare – di mettere sotto controllo l’università Azad – vicina all’altro ex presidente Rafsanjani,
ndr ”. Quindi ha chiuso i giornali riformisti, da Sharq – il dito medio, di area Rafsanjani – all’Amihan - dito indice, sempre in orbita riformista ”. Sono troppi i casi per citarli tutti. Il progetto è lasciare campo aperto solo al "partito delle caserme": unico in grado di mobilitare e organizzare la società" ».
Per la prima volta da trent’anni, sulle poltrone chiave dell’esecutivo non siedono più dei clerici, i «turbanti », ma dei laici: alla presidenza del Parlamento, al ministero della Cultura e della Guida Islamica, al ministero della Giustizia.
Dopo che un ministro di Ahmadinejad aveva parlato di amicizia con il «popolo israeliano» ed era stato rimproverato dagli ayatollah, un consigliere del presidente ne ha preso le difese.
« meglio che i clerici si occupino di religione e lascino il governo ai ministri». Una bestemmia nel Paese del Velayat- e Faqih, la guida del saggio religioso.
«In questi tre anni i gruppi moderati di destra e di sinistra si sono avvicinati cacciando gli estremisti ai margini. Il futuro sarà del centro» sostiene Khosh Chehreh, professore di economia politica ed ex deputato conservatore. Nelle definizioni del professore gli estremisti di sinistra sono i giovani che chiedevano democrazia ai tempi delle riforme di Khatami, gli estremisti di destra sono i «militari ». La resa dei conti tra i due gruppi arriverà in giugno, alle elezioni presidenziali. Il volto della metamorfosi del potere iraniano è una bizzarra contraddizione: i possibili candidati «conservatori» sono ex militari di mezza età laici. I candidati «riformisti» hanno in testa il turbante del religioso e hanno superato ampiamente i sessant’anni.
La sfida è diventata tra la vecchia guardia della rivoluzione islamica e i «giovani» leoni sopravvissuti alla guerra con l’Iraq. A difendere con il voto e la politica l’idea di una riforma democratica non è rimasto nessuno.
Iran