Gabriele Romagnoli, Vanity Fair 17/12/2008, pagina 172, 17 dicembre 2008
Vanity Fair, mercoledì 17 dicembre Sono stato al mio funerale. Ha avuto luogo a Naju, nel Sud della Corea del Sud, il 27 novembre scorso alle 10 del mattino
Vanity Fair, mercoledì 17 dicembre Sono stato al mio funerale. Ha avuto luogo a Naju, nel Sud della Corea del Sud, il 27 novembre scorso alle 10 del mattino. Si è concluso con le parole: «Hai avuto una vita faticosa, è ora che ti riposi». Poi hanno chiuso la mia bara con 4 colpi di martello, gettato una manciata di terra sul coperchio e se ne sono andati. Sono rimasto lì, nel buio del tempo, pensando a tutto quel che era stato, a quel che non sarebbe stato più, accettandolo come accettavo di essere finito, letteralmente finito, lì. Guarda che cosa mi tocca fare per (non) campare. Sono tornato per raccontarvelo. Il diario di fine anno, l’ultimo, parla della morte. Voltino pagina i superstiziosi e quelli convinti che a loro non toccherà. Tutti gli altri, avanti, vengano che stavolta si va davvero lontano. Final destination Il viaggio è cominciato, inevitabilmente, in aereo, una mattina di luglio 2008. Su un giornale inglese ho letto che la Corea del Sud ha il record mondiale di suicidi: 12 mila nel 2007, una media di 33 al giorno. E che, per scoraggiarne la diffusione, si sono inventati perfino i falsi funerali. Grosse società come la Samsung o la Allianz pagano perché i loro dipendenti passino una giornata, anziché al lavoro, a dire addio a se stessi, nella speranza che poi non lo facciano veramente. C’è un’apposita organizzazione, la Korea Life Consulting, che provvede alla cerimonia. sorta nel 2004 e ha già celebrato 50 mila riti. Il numero 50.001, ho pensato mentre atterravamo, voglio essere io. Non perché abbia, o abbia mai avuto, o pensi che mai avrò la tentazione di suicidarmi. E neppure per fare un servizio particolarmente originale. Ma per capire se, pur attraverso una messinscena, la sensazione della fine aiuti ad afferrare qualcosa, anche solo un’inezia, del benedetto, banalizzato, «senso della vita». E così eccomi su un altro aereo, per Seoul. E da lì su un altro ancora, per Gwangju. E da lì su un taxi per mezz’ora, fino a Naju. L’automobile si inoltra in una selva di condomini numerati. Piove a dirotto. Il cielo è grigio senza remissione. Il navigatore satellitare si è arreso. Un passante ci indica la sede della Korea Life Consulting: è all’interno di un anonimo palazzo di uffici, protetto da una sbarra all’ingresso. Un uomo gentile chiamato canzone, Song, mi aspetta con l’ombrello aperto e mi conduce in una stanza dove conoscerò il fondatore della società: il signor Ko Min-su. Ha 40 anni. Viene dal settore assicurativo. La sua esistenza è stata segnata dalla morte in giovane età di entrambi i fratelli maggiori, il primo in un incidente aereo, il secondo in auto. La sopravvivenza lo ha marchiato e riempito di dubbi a cui cerca di dare risposta proprio con questa attività. Mi spiega che solitamente il rito è collettivo e notturno, il mio caso farà eccezione. Rinvia ogni altro argomento a «rinascita» avvenuta e mi propone di procedere. Andiamo in un’altra stanza, molto più grande, arredata come un’aula scolastica, con tanti banchi, una cattedra e la lavagna luminosa. Mi viene scattata una fotografia che verrà prontamente sviluppata e infilata in una cornice di crisantemi gialli e nastri neri. Siedo a un banco e assisto alla lezione che precede la cerimonia. Ko Min-su mostra un video che ha realizzato per l’occasione. Si vede una madre in sala parto. Il bambino che nasce viene esploso dal suo utero, sfonda il vetro e, urlando, vola in cielo. Senza smettere né di volare né di urlare diventa un ragazzo, poi un uomo. Il cielo intorno a lui cambia colore, la terra attraversa le stagioni, l’uomo perde i capelli, poi i denti, è un vecchio, è inverno, è l’ora del tramonto, si schianta, non entra si schianta in una tomba. Sono passati venti secondi, appare la scritta «Life is short», «la vita è breve». Ko Min-su mi guarda e dice: «Non sai mai quando accadrà. Nel tuo caso finisce ora, pensi di essere pronto? Di aver usato al meglio il tempo che ti è stato concesso?». Sono domande retoriche. Nessuno ha mai risposto sì. Non uno su 50.001. Sulla lavagna passa un lucido. Hanno intervistato 100 uomini vissuti fino all’età di ottant’anni. In media, così hanno speso la propria esistenza: 23 anni a dormire, 20 a lavorare, 6 a mangiare, 5 a bere e fumare, altri 5 aspettando un appuntamento, 4 a pensare, 228 giorni a lavarsi, 18 a farsi il nodo alla cravatta, 26 giocando con i figli. E, da ultimo, 46 ore di felicità. La scritta rimane accesa, nessun commento, silenzio. Provo a fare un calcolo dei miei 48 anni: uno intero devo averlo passato negli aeroporti, tre mesi traslocando, due cercando di spacchettare dvd e cd. Se continua così passerò tre dei prossimi anni a navigare su Internet senza approdare da nessuna parte, due a mandare sms per non dire nulla, un altro negli aeroporti, altri tre traslocando. Dei minuti di felicità, non saprei fare il conto. «Ma è finita qui, adesso, non c’è altro», mi ricorda Ko Min-su. Non c’è tempo per correggere la rotta, né per fare altri sbagli. andata. Abbassano le luci, mettono una candela sul mio banco, mi portano la mia fotografia listata a lutto e un foglio. «Adesso devi fare testamento. Rivolgi l’ultimo saluto alle persone a cui tieni di più e disponi dei tuoi beni materiali. Poi firma e metti la data. Se vuoi, la cosa può avere valore legale. Hai mezz’ora di tempo. Ricorda: devi considerare che davvero sta per finire, non hai tempo più per cambiare nulla. Le cose che hai sono le cose che hai, le persone che contano sono quelle che hai». Mi lasciano solo, con la candela e il foglio. E comincio a scrivere, come se fosse reale. Pare sia stato, per molti dei 50 mila, un esercizio rivelatorio. Si sono resi conto, spesso dolorosamente, di quanti rapporti veramente importassero e di che cosa avessero saputo costruire. Nelle ultime volontà la parola più diffusa è stata fin qui «rimpianto». Non la scriverò. andata come doveva e poteva. Per come la vedo io il percorso perfetto è quello in cui alla fine non hai più nulla da lasciare, ti sei già disfatto di ogni cosa. E nessuno a cui dare un nome, non ci sarà nessuno a provare dolore per la tua fine, puoi davvero andartene in pace, come se ne va un alito di vento, leggero, non notato. C’era, è passato, non c’è bisogno di voltarsi per salutare. Il problema è che invece finisce quando meno te l’aspetti. E se davvero fosse ora dovrei considerare il dolore dei miei genitori e regalare quattro stracci. Non ho mai fatto testamento. Ci ho pensato spesso e ho sempre rinviato. Ecco che cosa capita poi. Ora tocca venirne fuori. Quel che scrivo nel tentativo di riuscirci è personale e, debbo ammetterlo, sorprendente (soprattutto per i menzionati). Rileggo e devo constatare che qualche effetto questa recita la produce. L’uomo chiamato canzone si avvicina e mi invita a portare con me il testamento e seguirlo: « l’ora del tuo funerale». Six Feet Under Usciamo nuovamente nell’atrio. Mi indicano un corridoio che conduce a una scala. All’imbocco mi attende un tipo vestito di nero con un enorme cappello. Nella tradizione coreana è il messaggero della morte. Mi precede con passi misurati. Scendiamo nei sotterranei. Fa un gran freddo. Al corrimano sono appese lanterne gialle. Alle pareti ritratti di famosi trapassati. La scelta è curiosa: riconosco John Kennedy, Lady Diana, Ronald Reagan e Stanley Kubrick. L’oscurità cresce, la temperatura scende. L’ultima sala è una cella frigorifera, al fondo c’è una specie d’altare. Sul pavimento, appena illuminate da una soffusa luce rossa, sono sparse file di bare, una ventina circa. Non è più tempo di convenevoli. Vengo sistemato di fianco alla mia, su un piedistallo posano la mia foto e il testamento. Mi danno una specie di vestaglia bianca, il vestito funerario coreano, Non avrà tasche, aveva preannunciato Ko Min-su, «perché senza nulla sei venuto e senza nulla te ne andrai». Mi chiede se voglio registrare un estremo messaggio. Ho sempre avuto paura delle ultime parole famose, quelle che al cinema i morenti, pur con otto colpi al cuore, dicono facendo rivelazioni o cambiando il senso della storia. Quelle che dovrebbero diventare lo slogan pubblicitario di un’esistenza. Perfino uno dei miei scrittori di riferimento le ha toppate. Stig Dagerman, svedese, morto (guarda caso suicida) a soli 31 anni, all’apice della fame e del successo, sposato a una donna bellissima. Le ha riposte in un cassetto prima di andarsene: «Lascio sogni immutabili e relazioni instabili. Lascio una promettente carriera che mi ha procurato disprezzo per me stesso e unanime approvazione. Lascio una cattiva reputazione e la promessa di una ancora peggiore. Lascio qualche centinaia di migliaia di parole, alcune scritte con piacere, la maggior parte per noia e per soldi». Fin qui posso serenamente sottoscrivere. Poi il finale: «Porterò con me la visione di una lapide, relitto abbandonato nel deserto o nel fondo del mare, con questa epigrafe: Qui riposa uno scrittore caduto per niente, sua colpa fu l’innocenza. Dimenticatelo spesso». Dove sta la toppa? Nel chiedere l’oblio, ma rendendosi memorabile. Nell’autoassolversi dal male collettivo. Nel chiedere che accada «spesso» quel che dovrebbe essere «sempre», rivelando che si intende in realtà «mai». Invece: mai morire giovani, mai lasciare rimpianti, vedove, eredi. Dissipare la vita fino in fondo, fino a non avere più niente e nessuno, cancellare le tracce come un assassino premuroso, rinascere prima di morire per farlo infine come altro da sé. E andarsene, educatamente, in assoluto silenzio, «Vuoi dire ancora qualcosa?». Neppure «no». Mi limito a scuotere la testa. Mi fanno entrare nella bara. E sdraiarmi. Qui devo dire la verità. Mi aspettavo una di quelle da film, foderate di raso, belle comode. Hanno badato al risparmio: questa è una scatola di legno, a misura di coreano. Tocco con i piedi e con la testa, non ho spazio per le braccia, che debbo tenere conserte. Sto ancora cercando di abituarmi quando vedo il coperchio che scende. E allora penso veramente: chi me lo fa fare? Qualsiasi giornalista racconta il mondo guardandolo, chi è venuto qui ha intervistato i «sopravvissuti», mica si è messo al loro posto. Non ho mai voluto fare il corrispondente di guerra perché finirei per arruolarmi da una parte o dall’altra. E, non sapendo combattere, morirei. Più o meno come ora. Sollevo i gomiti per fermare il coperchio, ma la gentilezza orientale ha un limite. Spingono giù e, come diceva Ceccherini nel Ciclone: «Mi tappano». Non sempre si citano scrittori di nicchia. Un martello batte sui chiodi ai quattro lati, una manciata di terra viene fragorosamente gettata sulla bara. Poi tutto tace. Buio. Game over. Last man standing E dunque qua siamo, dentro a una scatola chiusa, nei sotterranei di un palazzo, alla periferia di una città, nel Sud della Corea. «Correspondent at large», c’è scritto nella qualifica che mi hanno attribuito. Stavolta sono davvero andato al largo. Devo pensare sciocchezze simili per far passare il tempo nella mia privata eternità. Scacciare l’idea che possa succedere, proprio ora e qui, un terremoto, tutti scappino abbandonandomi. Che se anche venissero i soccorritori, a chi mai verrebbe in mente di cercare, tra le macerie, anziché un vivo, un bambino urlante, una bara con dentro un giornalista occidentale che ci si è ficcato da solo per raccontare com’era? Questi sono pensieri di chi vuole ancora sopravvivere, ma mi è stato detto che «era tempo di riposare». Di arrendersi, accettare la fine. Non ci riusciamo mai. Prima l’idea della morte non c’è. Poi arriva, ma nei film, nei libri, è una fantasia. Quindi si avvicina, colpisce un parente anziano. E all’improvviso si fa seria, porta via qualcuno che amiamo. Guardiamo la nostra mano chiudere i suoi occhi e moriamo anche noi. Non del tutto, solo la parte migliore. Possiamo campare cent’anni, non tornerà. Ora dobbiamo soltanto fare i conti con noi stessi, allo scoperto, sapendo che tutto finisce così e dargli un senso è impossibile. Avevamo bisogno del trauma per capirlo? Dovevo davvero venire fin qui, in un sottoscala coreano, per sapere che «la vita è breve», «la felicità dura un attimo», «si arriva e si parte a mani vuote»? Certo che no. Eppure sì. Perché se passi tutto il tuo tempo a bere e mangiare, farti il nodo alla cravatta e spacchettare cd, aspettare persone e aerei, quand’è che ti fermi per ammetterlo? Adesso, dentro questa scatola gelata, nell’oscurità. Adesso lo penso. Ma soprattutto penso: quand’è che sollevate questo cazzo di coperchio? Per sua informazione, onorevole signor Ko Min-su, uno dei miei tormentoni sta in un libro (Hotel New Hampshire) di John Irving: «Bisogna continuare a passare davanti alle finestre aperte». Mai gettarsi. Neppure dalle Torri Gemelle l’11 settembre. Provare ad attraversare il fuoco, piuttosto. Uno dei miei film di riferimento resta Last Man Standing e così mi piace immaginarmi, quando le munizioni saranno finite, la polvere si sarà posata: l’ultimo uomo rimasto in piedi. Non sdraiato in una cassa, in piedi. A qualunque costo. Chiese Kurt Cobain agli altri Nirvana la sera prima di spararsi: «Ragazzi, voi vi state ancora divertendo?». Non sempre, neppure spesso. E tuttavia sia va avanti, anche nel rispetto di chi avrebbe voluto farlo e non ha potuto. Solo i viziati staccano prima. Si va avanti perché questo è e altro non c’è. Si sposa la vita in ricchezza e in povertà, nell’amore e nel disamore, per 46 ore di felicità e 228 giorni a lavarsi la faccia e i denti. Perché solo un idiota come Osama bin Laden può proclamare orgoglioso di amare di più la morte. E che si accomodasse, gli cedo il mio posto e i chiodi li offro io. Perché se il grande avvenire ce l’ho alle spalle, mi prendo lo straccio di futuro che resta e lo vivo come posso, all’ombra del disincanto, solitario se debbo, ma triste y final ci sari tu. Non aspettatevi che bussi sul coperchio o urli qualcosa per farmi aprire. Ho imparato a resistere e se lo faccio qua dentro la prossima risonanza magnetica sarà uno scherzo. Qualcosa accadrà. Finché c’è vita c’è vita. Una voce lontana annuncia: «Ora sei pronto per rinascere». Mi «stappano». Respiro. Mi tolgo la vestaglia senza tasche e mi rimetto le scarpe. Risalgo le scale salutando Jfk e Lady D che sono rimasti sotto. Torno nell’ufficio di Ko Min-su, mi offre un tè. Gli chiedo se è religioso. Risponde di no. Se è davvero pronto per morire. Ancora no. Dice che lo scopo del «gioco» non è prepararsi a morire, ma a vivere. Korea Life Consulting, giusto? Mi accompagna all’uscita. Mentirei se dicessi che ora il grigio cielo coreano mi appare luminoso. lo stesso di prima, come lo sono io. Può finire adesso, mentre vado all’aeroporto, su uno dei tre voli che prenderò o per qualunque altro inimmaginabile motivo. Sono pronto? No. Lo accetto? Ho forse scelta? Ma finché non è finita (per quanto sia stata e sia faticosa, che i ragazzi si stiano ancora divertendo o no, chiudete pure le finestre), non è finita. Gabriele Romagnoli