Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 1/12/2008, pagina 11, 1 dicembre 2008
Corriere della Sera, giovedì 11 dicembre 2008 Il 19 dicembre la Porsche darà i risultati dei primi quattro mesi dell’esercizio 2008-09
Corriere della Sera, giovedì 11 dicembre 2008 Il 19 dicembre la Porsche darà i risultati dei primi quattro mesi dell’esercizio 2008-09. Scontata la flessione delle vendite di 911 e Cayenne, i profitti potrebbero tuttavia risultare elevatissimi. E questo grazie al commercio dei derivati sui quali Wendelin Wiedeking ha costruito la scalata della piccola casa automobilistica di Stoccarda alla grande Volkswagen. Saranno miliardi, se il carismatico presidente del Vorstand, il consiglio di gestione, inserirà i guadagni fatti servendo a prezzi stratosferici i titoli Volkswagen necessari agli speculatori, che avevano scommesso allo scoperto sul ribasso, per onorare i loro contratti. Nell’occasione, probabilmente Wiedeking confermerà che non riuscirà a salire entro l’anno dal 42% di Volkswagen effettivamente posseduto al 51%. Il tentativo della Porsche non è un raid improvviso e provvisorio, ma un’operazione industrial-finanziaria di lunga lena, spregiudicata e coraggiosa. O temeraria, se qualcosa andasse storta. Una scalata che mette la Deutschland Ag davanti alle sue contraddizioni: volontà di potenza, orgoglio tecnologico-manifatturiero, solidarietà corporativa, europeismo a corrente alternata, opacità regolatoria, conflitti d’interesse. Ma quella della Porsche è anche una scalata che, ai tempi dei fondi sovrani, della tecnofinanza impazzita e degli aiuti di Stato su scala planetaria, fa sembrare fuori dal tempo il liberismo transfrontaliero della Commissione europea. Le famiglie Porsche e Piëch, proprietarie del capitale ordinario, hanno affidato al management la conquista della Volkswagen nel presupposto che il governo correggesse la legge di privatizzazione della casa automobilistica di Wolfsburg laddove assegna speciali diritti di veto ai soci con almeno il 20% del capitale, ovvero al Land della Bassa Sassonia. Nel marzo 2003, la Commissione Ue aveva contestato questa posizione e, davanti alle resistenze di Berlino, ha poi aperto una procedura d’infrazione che ha portato alla condanna della Germania da parte della Corte europea di giustizia del Lussemburgo. Il cancelliere Angela Merkel ha predisposto modifiche, ma non sostanziali. La questione resta aperta. Per Bruxelles, la legge Volkswagen irrigidisce la norma generale tedesca che fissa nel 25% la soglia della minoranza di blocco e con ciò dissuade i soggetti di altri Stati europei a investirvi i propri soldi. Un simile disincentivo viola l’articolo 56 del Trattato sulla libera circolazione dei capitali. Epperò in Germania non si capisce quale utilità Volkswagen possa ricavare da investitori che scommettono sulle sue azioni e magari scalano la società per rivenderla a pezzi dopo aver licenziato a man bassa per aumentare i profitti a breve, ma senza rischiare un centesimo sull’attività industriale. Dire che la minoranza di blocco va bene al 25% e non al 20% appare libresco. Se si fosse posto il problema nel 1960, con la privatizzazione, il governo federale avrebbe potuto trattenere un 5% e non ci sarebbe stata partita. Per i soci pubblici e i sindacati, la contendibilità non è un valore di per sé. L’opinione di questi stakeholders è interessata a proteggere posizioni manageriali e a conservare un carico di personale forse eccessivo. Talvolta è perfino pelosa, se si ricordano i favori economici e sessuali elargiti dall’azienda ai rappresentanti sindacali nell’ambito dell’Aufsichsrat, il consiglio di sorveglianza. Ma è anche un’opinione non banale se si confrontano nel tempo i risultati della Volkswagen con quelli delle public companies americane di Detroit, i cui capi vanno a Washington a mendicare l’aiuto dello Stato a bordo di jet privati. Volkswagen è l’unica in Europa ad avere già oggi la taglia per competere in quella che sarà la battaglia dei giganti, se ha ragione Sergio Marchionne a riservare il ruolo dei protagonisti solo ai gruppi capaci di 6 milioni di veicoli l’anno. Detto questo, è singolare notare come proprio nel 2003, in coincidenza con le mosse della Commissione, la Porsche inizia ad avvicinare la Volkswagen con l’accordo per la coproduzione dei Suv Cayenne, Tuareg e Q7. E’ un accordo delicato, visto che il nuovo veicolo porterà a Porsche la metà delle vendite. All’epoca Wolfgang Porsche presiedeva il consiglio di sorveglianza di Stoccarda, e suo cugino, Ferdinand Piëch, quello di Wolsburg, in virtù della sua storia professionale e non ancora delle azioni. Stavano già pensando alla scalata? Lo si può sospettare, ma l’operazione scatta nel 2005. E fa emergere due dati di fondo: Porsche si muove in autonomia, non è il cavaliere bianco di un governo rassegnato a cancellare la legge Volkswagen; Porsche utilizza con diabolica abilità, e avvicinandosi ai confini della legge, il debito e la tecnofinanza per una reconquista (l’ingegner Ferdinand Porsche fondò la Volkswagen nel 1937 su mandato di Hitler per dare un’auto al popolo) che è, quanto ai fini, il contrario della tecnofinanza. La Porsche compra un po’ di azioni e tante attraverso opzioni d’acquisto che verranno esercitate a date e prezzi prestabiliti e maggiori di quelli correnti. Se le quotazioni Volkswagen migliorano, le banche, che avevano raccolto le azioni, guadagnano; se superano il prezzo prestabilito, comincia a guadagnare Porsche. La storia è che nella primavera del 2005 il titolo Volkswagen quotava sotto i 40 euro euro e poi è costantemente salito fino ai 200 euro per strappare a mille euro e ridiscendere a 300 in quest’autunno di fuoco. Poiché il costo di un’opzione è modesto rispetto a quello dell’azione, con un investimento relativamente basso, Porsche ha potuto servire il parco buoi, del quale faceva parte anche una pattuglia di hedge fund nonostante l’evidente asimmetria informativa che la legge tedesca riconosce a favore dell’establishment. La speculazione non ha considerato che, per chiudere la partita, la Porsche deve conseguire due obiettivi: superare il 75%, così da poter incorporare Volkswagen o comunque disporre dei flussi di cassa e del patrimonio della medesima; ottenere che la minoranza di blocco venga elevata dal 20 al 25% sterilizzando così il Land della Bassa Sassonia. Nel frattempo, gli utili della Porsche sono stati trainati verso il cielo dai guadagni fatti cedendo una parte delle opzioni. Nell’ultimo esercizio, la finanza ha portato un guadagno sei volte maggiore di quello delle attività industriali. Che le famiglie Porsche e Piëch, le quali forniscono merci e servizi all’azienda per 146 milioni l’anno, hanno trattenuto nelle casse sociali. I dividendi sono infatti rimasti legati ai profitti industriali. Allo stesso modo dei salari. La cui dinamica, tuttavia, va riferita per capire che cos’è la Deutschland Ag: nell’ultimo esercizio i salari dei 12 mila dipendenti Porsche sono stati aumentati del 13,7% più un bonus di 6 mila euro uguale per tutti che si aggiunge a quello di 5.200 euro dell’anno prima. Forse anche per questo il primo sostenitore della scalata è il vicepresidente Uwe Hück, di nomina sindacale. Ma arriverà la Porsche al 75%? Le banche gli presteranno i 15 miliardi che JP Morgan stima necessari? Secondo il direttore finanziario, l’ormai celebre Holger Härter, il valore di carico dell’azione Volkswagen sui libri Porsche è pari a 117 euro, mentre le quotazioni sono risalite sopra i 300. Ma certe quotazioni non significano nulla se non c’è più flottante. In realtà, già a 117 euro per azione la Volkswagen avrebbe un valore di 34 miliardi, 10 in più rispetto alla Daimler. Härter stima in 200 euro la quotazione ragionevole, mentre la Merrill Lynch, a settembre, considerava equi 80-120 euro. Alla fine, la partita si giocherà sul debito che avrà la Porsche esercitate le opzioni in relazione ai margini della Porsche e ai dividendi ordinari acquisibili da Volkswagen in tempi di crisi. Certo, cedere Scania o trasferire il debito su Volkswagen farebbe quadrare subito i conti dello scalatore che sogna un gruppo industriale al vertice mondiale della qualità. Nella sua lettera agli azionisti, Wiedeking promette la salvaguardia dei posti di lavoro tedeschi. Senza una maggioranza dei due terzi, e dunque senza sindacati, il consiglio di sorveglianza di Volkswagen non potrà chiudere nessun impianto. Insomma, Wiedeking cerca appoggi per convincere il governo ad archiviare la legge scomoda. Ma l’atto di fede nella codecisione contrasta con la paga del manager, 74 milioni, e con una scalata condotta alla maniera di un hedge fund e la soluzione degna di un private equity. Che sono le locuste contro le quali la Deutschland Ag dice di voler combattere. Massimo Mucchetti