Adriano Sofri, la Repubblica 11/12/2008, pagina 32, 11 dicembre 2008
la Repubblica, giovedì 11 dicembre 2008 Ci sono momenti in cui si vuole essere nascosti, o almeno al riparo dagli sguardi estranei: quando si nasce e quando si muore, quando si fa l´amore, quando si mangia, quando si va di corpo
la Repubblica, giovedì 11 dicembre 2008 Ci sono momenti in cui si vuole essere nascosti, o almeno al riparo dagli sguardi estranei: quando si nasce e quando si muore, quando si fa l´amore, quando si mangia, quando si va di corpo. Basta guardare i nostri animali: per loro è il ricordo della necessità di proteggersi, quando si è più esposti e vulnerabili. Perfino allo sguardo di Dio i progenitori vollero sfuggire quando si accorsero d´esser nudi. Per gli umani è diventato lentamente un modo di procurarsi, con una misura di riserbo e di segretezza, il piacere o la consolazione preziosa dell´intimità. Oggi appartatezza e intimità sono messe a dura prova. Nel bene: perché per esempio si abbattono muri - i panni sporchi da lavare in famiglia - al di là dei quali regna la sopraffazione e la brutalità. Al contrario, nel compiacimento esibizionista di cui si nutre la televisione della "realtà" (in ultima sostanza: la trasparenza di un cesso e una stanza da letto in vetrina - la simulazione allegra della gogna di gabbia e galera). La prima reazione di fronte a un suicidio assistito trasmesso in tv è di ripugnanza. Le parole, i gesti, i rumori della morte fatti spettacolo e forse propaganda per i voyeur della prima serata. La seconda reazione no. Eppure io non vorrei mai che un pubblico assistesse alla mia morte. Mi sono chiesto perché qualcuno - il professor Craig Ewert - scelga di farsi riprendere mentre muore in una clinica di Zurigo, qualcuno - sua moglie, che ama e lo ama da 37 anni - assecondi la sua scelta, qualcuno - il regista premio Oscar John Zaritsky, uno che non ha bisogno di pubblicità facili - diriga le riprese. E intanto ho ascoltato le loro spiegazioni. Mi sono ricordato di essere stato incapace di parlare e anche di respirare, di muovermi o di nutrirmi, e di aver temuto di restare in quella condizione. Ciascuno di noi ha la fortuna di poter paragonare la propria avventura a quella altrui, e di immaginarsi negli altrui panni. Dunque ecco che cosa penso. Penso che chiunque è stato libero di guardare o no il filmato che ieri sera è scorso su "Sky Real Lives". In uno stadio afgano o iraniano lo spettacolo di un´esecuzione capitale è obbligatorio. Le autorità lo dichiarano educativo: in realtà lo sentono piacevole. (Una pubblicità, purtroppo, vige anche nelle stanze della morte americane, benché per inviti). una differenza decisiva. Fra gli obiettori al filmato di Zaritsky, c´è chi avverte del rischio che spettatori fragili siano incitati a seguire l´esempio e indursi alla resa del suicidio. Ma, con la riserva ragionevole di quelle che chiamiamo fasce protette, il paternalismo di questa obiezione non ce la fa più ad affrontare la novità della condizione umana: in particolare, la coincidenza fra l´inesorabilità della malattia e la protrazione della vita. L´alternativa, per me, ha detto Craig Ewert, era fra morire, e prolungare una sofferenza indicibile prima della morte. Di fronte a questa meravigliosa e terribile condizione umana, non può più valere l´assolutezza di una norma dettata da un´autorità riconosciuta comune, che sia il comandamento di una Chiesa o la legge di uno Stato. Si muore soli, e soli si decide. Il suicidio assistito, quando non diventi la contraffazione di un infame desiderio di sbarazzarsi di un´esistenza altrui mal sopportata, è l´attenuazione di quella irriducibile solitudine. Certo, si deve riconoscere una tremenda responsabilità alla persona: ma è questa la condizione della libertà umana. Una socievolezza, l´amore dei suoi e il sostegno della comunità devono circondare la persona al punto: ma la decisione ultima non può che essere sua. Qualunque sia: a cominciare da quella di vivere a ogni costo, fino all´ultimo respiro, all´ultimo soffio di ventilatore. Trovo degno il commento di Kristine Knox, che è la responsabile dell´Associazione britannica dei malati di Sclerosi laterale ammiotrofica: «Dev´essere stata una decisione assai difficile per Craig e la sua famiglia. Noi rispettiamo e comprendiamo la ragione che li ha spinti, per suscitare la consapevolezza della gente. Quanto a noi, il nostro compito è di sostenere chiunque sia malato di Sla. Non spetta a noi commentare decisioni individuali. La scelta di Craig mette in luce il carattere devastante della Sla. Alcuni scelgono di metter fine così alla loro vita. Come associazione, non sosteniamo né avversiamo qualsiasi intenzione di cambiare la legge sul suicidio assistito perché siamo convinti che riguardi una scelta personale». Benché la morte di Ewert risalga al settembre del 2006, la programmazione del documentario è pressoché coincisa con la sentenza che ha dichiarato il non luogo a procedere contro i genitori di Daniel James, un rugbista ventitreenne rimasto paralizzato dal collo in giù, il quale ha voluto, vincendo le loro angosciate resistenze, morire anche lui nella clinica zurighese di "Dignitas". Il giudice ha stabilito che il giovane aveva indiscutibilmente deciso in modo autonomo e lucido di non voler più vivere, che i suoi genitori non erano dei propagandisti del suicidio assistito o dell´eutanasia, ma persone che avevano dolorosamente accompagnato la determinazione del figlio (Ha detto loro: «Non c´è niente che possa dirvi per rendere più sopportabile la vostra perdita. Vogliate accettare le mie condoglianze»), e che non c´era alcun interesse pubblico a perseguirli penalmente. Ogni caso, ha detto, va considerato per sé: che è un altro modo di riconoscere la libertà finale di ciascuno sulla propria vita, la cura e la rinuncia alla cura. Lo scandalo del racconto della malattia e della morte di Craig Ewert sta, temo, negli occhi di chi guarda e non vuole che altri guardino. Il tentato suicidio fu (lo è ancora in certe legislazioni) un reato. Paradossale idea, grottescamente echeggiata dai terroristi islamisti confessi dell´11 settembre che ora sfidano la giustizia americana a giustiziarli, assicurando loro il paradiso dei martiri. Se il suicidio non è un reato, ma la condizione e contrario della libertà personale, non può nemmeno esserlo, se non come una oltraggiosa ipocrisia, il cosiddetto suicidio assistito, cioè l´aiuto offerto a chi, pienamente capace di capire e volere, non sia materialmente in grado di realizzare la propria volontà. Il caso di Daniel James non è che uno dei cento di cittadini britannici che hanno fatto il loro ultimo viaggio in Svizzera. E di coloro che l´hanno fatto dall´Italia e da tanti altri paesi del mondo. Daniel aveva tentato di uccidersi per tre volte, fallendo per l´inabilità del suo corpo. Ho letto il lungo statuto dell´associazione Dignitas, presentato nel sito della "Exit-Italia". difficile non interrogarsi su temi così fatali. Mi ha colpito il brano sugli stranieri: «Dignitas è convinta che per ragioni etiche non sia ammissibile che in caso di persone affette da gravi sofferenze si faccia una distinzione di cittadinanza. Ciò sarebbe un´inaccettabile discriminazione e quindi una violazione dell´articolo 14 della Convenzione europea sui diritti dell´Uomo. La Svizzera dovrebbe aver tratto insegnamento dall´aver respinto dai suoi confini i fuggiaschi durante la seconda guerra mondiale». E la parte in cui si dice che, in alcuni casi, la certezza di contare su quella "uscita di emergenza" induce i malati a dilazionare la loro decisione finale e a volte a morire nel proprio letto di casa. Anche qui, ciascun cittadino adulto potrà farsene un´informazione e dunque un´idea. Sta di fatto che l´incapacità fisica di metter fine alla propria vita diventa, con la persecuzione penale del cosiddetto suicidio assistito, un´ulteriore sventura di chi è già colpito da una malattia terribile. Ewert aveva spiegato di non poter nemmeno mostrare la propria sofferenza: «Quando sei completamente paralizzato, non puoi parlare né camminare, non puoi muovere gli occhi, come puoi far sapere che stai soffrendo?». Qualcuno ha messo nella bocca di Craig Ewert un interruttore: lui ha potuto usare i suoi denti per spegnere la ventilazione. Si è ucciso. Al cinema l´avevamo visto tante volte. Se andiamo a vedere quei film, e se non cambiamo canale quando passano a Sky. Adriano Sofri