Giancarlo Dotto, Gioia 13/12/2008, pagina 62, 13 dicembre 2008
Gioia, sabato 13 dicembre «Da dieci anni, quando esco di casa porto con me un orologio da taschino
Gioia, sabato 13 dicembre «Da dieci anni, quando esco di casa porto con me un orologio da taschino. Sempre lo stesso. Sono due giorni che lo dimentico... Che dite? un piccolo segnale?». Mario Monicelli, 93 anni, eleganza innata e patta sempre abbottonata, si concede l’unica, piccola civetteria quando esce dal bagno, dove ha fatto pipì, che per i vecchi, sappiamo, è ogni volta un’entusiasmante conquista. Me lo diceva Arnoldo Foà, il Terribile, 91 anni, che c’è ancora e sbraita insieme a noi, me lo diceva Dino Risi, grande amico di Mario, che non c’è più e, a 92 anni, non aveva più voglia di esserci. «C’era una scommessa tra noi, ma non mi ricordo più come stava la faccenda. Se chi muore prima, in questo caso l’ha vinta lui, o chi campa di più, in questo caso l’ho vinta io». Sera. Interno romano, Ospiti Mario Monicelli e la sua ex moglie Antonella, Giovanni Viceponte, luminare della chirurgia, padroni di casa Monique Gregory e Pino Settanni, noto ritrattista. Che ha estratto dalla faccia antica di quel finto burbero di Monicelli una tenerezza sorprendente, infantile, la prova visiva che non si ha un’età ma si è, sempre, tutte le età. Di questo sono capaci i fotografi quando, oltre a essere grandi, sono anche amici. La vista è un po’ andata, le ombre avanzano, ma l’udito è quasi perfetto, la schiena dritta, voce ferma, per non parlare dell’olfatto e del gusto. La pizza rustica, il polpettone al tartufo, il dolce, annusa e assaggia tutto il Grande Vegliardo, sostenitore molto credibile del concetto che a tavola non s’invecchia, specialmente quando digerisci bene e lui digerisce tutto, tranne i panettoni, di cui è goloso fino alla perdizione. «I cinque sensi? Sai che ti dico, la cosa meno necessaria alla fine è la vista. Si sta bene anche senza vedere. Chi se ne frega della vista. All’inizio ero preoccupato, chissà che succede, come passo il tempo... Non succede niente. Il tempo passa lo stesso». La fortuna di stare una sera a cena con Monicelli è che puoi parlare di Pancho Villa e di Barack Obama, di Totò e di Michele Placido, di Buster Keaton e di Peppuccio Tornatore, del cinema muto e del documentario girato in digitale. Fosse per lui, non ne saprebbe nulla di essere vecchio, lo deve apprendere tutti i momenti dalla gente che gli sta intorno. «Solo che oggi nessuno usa più la parola ”vecchio”, dicono tutti ”anziano”, pensando sia più gentile, e invece a me non me ne frega niente di come mi chiamano... E poi dipende. Ci sono figli più rimbambiti dei padri o delle madri, penso al figlio della regina d’Inghilterra». La virtù dell’uomo che non sapeva di essere vecchio è la sintesi fulminante della parola, la riduzione di ogni concetto all’essenziale, che si discuta se nelle case dei ricchi si mangi bene o male («Una volta era considerato volgare mangiare, oggi è diverso»), se il consommè sia una gioia o una punizione («la seconda») o se il fumo nuoccia gravemente alla salute. «Ho fumato fino a 32 anni, poi ho detto basta da un giorno all’altro. Sentivo che mi faceva male e poi era una grande rottura di scatole. Eravamo nel dopoguerra, dovevi fare ore di fila davanti alle tabaccherie per poi rischiare di sentirti dire che erano finite...». La non percepibile sorte di Monicelli è di essere vecchio da sempre. Lui aveva ”una certa età” già vent’anni fa, quando concepì Rosa, la terza figlia, e la sera in cui si schiantò al volante della sua macchina contro un cipresso e ne uscì più morto che vivo, fratturato ovunque, costole, gambe torace. «Avevo le allucinazioni, bestie che si arrampicavano sulle pareti. Ricordo solo un viale buio pieno di cipressi e il telegramma di Lucio Dalla: ”Abbasso la Forestale”. Stavo morendo in quell’ospedale di Bracciano. Mia moglie Antonella fece il diavolo a quattro. Chiamò Cossiga, allora presidente, e quando mi portarono via in elicottero mi disse sulla barella: ”Mario, se muori questa volta me la paghi”»: Monicelli parla poco e ascolta molto. Pieno di puntigliose curiosità. Minime, tipo sapere perché nella tisana di acqua e alloro non ci va lo zucchero, o sociali, come chiedersi se è vero che l’apparato economico attorno a Padre Pio sia entrato in crisi. I grandi misteri della vita non lo affascinano. «Tempo perso. La questione l’ho risolta a 15 anni. Se un mistero è insondabile allora è giusto mettersi l’animo in pace, se non lo è allora aspetto che qualcuno me lo spieghi... Non capisco piuttosto la paura della morte. Posso anche capire quella dell’al di là ma la paura di non campare più è miserabile. Come trovo miserabile comportarsi bene perché temi l’inferno e non perché hai i tuoi valori a prescindere... La reincarnazione mi fa orrore. Se uno pensa che da mascalzone rinasce bacarozzo, pantegana o anche uno qualunque di voi... Beati quelli che credono, ma non li seguo quando passano la vita a chiedere perdono. Ma come, tu mi hai creato e io ti chiedo perdono... Saranno anche affari tuoi». Vanità zero, umorismo grandioso, come quando racconta di tutte le volte che lo scambiano per Comencini e gli chiedono del ”suo Pinocchio”. O come quando, nel pieno della commossa rievocazione dell’amico Gillo Pontecorvo, sbotta: «Vabbè, è morto, ma in fondo aveva 89 anni...». Vive da solo a Roma, nel quartiere del Marchese del Grillo. Due ex compagne e tre figlie molto affettuose vegliano su di lui. «Ci sto bene da solo, non mi manca niente e nessuno. Le patate bollite sono l’unica cosa che so fare. Sale, olio, un po’ di limone. So cucinare anche le uova sode. Una volta ho provato a farmi un uovo al tegamino, ma mi è cascato per terra. Il mio amico Dino Risi, grande sfottitore, lui sì era un mago a cucinarsi le uova al tegamino. Viveva da solo in questo residence, con quella vista un po’ triste sulla voliera dello zoo. Due cinici, io e Dino? La sento usare spesso questa parola ma non so bene cosa voglia dire. Cinico è chiunque deve raccontare qualcosa per mestiere. Se invece cinismo è portare a casa un risultato, allora siamo tutti cinici. Amici miei un film cattivo? Il contrario. Esalta l’amicizia, lo stare insieme di noi toscani, che oggi non c’è più». Adolfo Celi, Renzo Montagnani, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret. «Via, via, morti tutti», dice lui brusco con una punta, questa volta sì, di vanità. «Forse qualche comparsa è rimasta». Ricorda con bencelato affetto i suoi attori. «Totò era un genio della farsa, Alberto Sordi il più grande di tutti. Ma anche Tognazzi era un talento naturale. Nino Manfredi non era simpaticissimo, ma in quanto a bravura non era secondo a nessuno. Gassman comico l’ho inventato io con il pugile suonato de I soliti ignoti. Abbiamo divuto deformarlo perché era troppo bello... Lo stesso con Monica Vitti, che s’aggrappava alle tende prima di fare cinema con me. Uscivamo spesso, io, lei e Antonioni. Monica era molto spiritosa, raccontava barzellette, faceva imitazioni. Ora mi dicono che ha questo alzheimer molto aggressivo... Non ne parla più nessuno di lei, colpa vostra, non è giusto». Ha vinto il Leone d’Oro con La grande guerra, ma la sua scommessa vinta è L’armata Brancaleone, commedia atipica in una lingua inventata, partita male al botteghino e poi diventata un cult anche tra i ragazzi di oggi. Gli piace abbastanza Carlo Verdone («ma non arriva alla classe di quelli che abbiamo nominato»). Segue da lontano ma con simpatia i primi passi registici dei figli dei suoi amici, Maria Sole Tognazzi, Marco Pontecorvo. Invidia Manoel de Oliveira («Più vecchio e più bravo di me»). Ha votato sempre a sinistra ma non gli piace Barack Obama. « uno dell’establishment, come la Clinton. nuovo solo perché è nero. Per il resto, è un giovane che si circonda di vecchi. Meglio allora McCain, che almeno si sapeva chi era. Rispetto a Bush, un mezzo scemo, sarebbe stato comunque una rottura con il passato». Gli piace soprattutto il cinema che non ha mai saputo fare. «Gli horror e i film mitologici più di ogni altro, ma anche quelli d’amore. Speriamo che sia femmina un film d’amore? Siamo matti, casomai sul fallimento totale dell’amore». Ha smesso di guardarlo e di farlo, il cinema. «Ho chiuso. Sessantacinque film possono bastare... Dormo tre ore e mezzo a notte, da sempre. Ora che non lavoro, mi annoio un poco, ma non in modo drammatico. una leggera noia persistente che può durare anche parecchie ore. Sto molto al buio. Non leggo più, non vedo la televisione, ascolto la radio, molta radio... Sono un asso della radio io». Giancarlo Dotto