Massimo Livi Bacci, la Repubblica 10/12/2008, 10 dicembre 2008
«Parliamoci chiaro: che cosa sono quaranta milioni di italiani di fronte a novanta milioni di tedeschi e duecento milioni di slavi?
«Parliamoci chiaro: che cosa sono quaranta milioni di italiani di fronte a novanta milioni di tedeschi e duecento milioni di slavi?... di fronte a quaranta milioni di francesi, più i novanta milioni delle colonie o di fronte ai quarantasei milioni di inglesi più i quattrocentocinquanta milioni che stanno nelle colonie? Signori! L´Italia, per contare qualcosa, deve affacciarsi sulla soglia della seconda metà di questo secolo con una popolazione non inferiore ai sessanta milioni di abitanti». L´esortazione di Mussolini, pronunciata nel discorso dell´Ascensione del 1927, ha avuto risposta con quasi sessant´anni di ritardo: in un giorno imprecisato di una delle scorse settimane, senza trombe né fanfare, il sessantamilionesimo residente - non sappiamo se neonato o immigrato - è stato aggiunto nelle anagrafi del paese. Se Mussolini fu cattivo profeta, sono finite fuori bersaglio anche le numerose previsioni fatte (da competenti istituzioni, nazionali e internazionali) durante gli anni ´90, che proponevano per la popolazione di oggi numeri di svariati milioni inferiori a quelli effettivamente raggiunti. Si riteneva, con buone ragioni, che la popolazione fosse avviata ad un inevitabile e lungo declino. Nessuno, infatti, si azzardava ad immaginare che gli immigrati sarebbero affluiti nel paese al ritmo di svariate centinaia di migliaia all´anno come è effettivamente avvenuto; che gran parte di questi avrebbe tentato, riuscendoci, di metter radici nel paese, invece di tornarsene a casa; che le nascite da cittadini stranieri sarebbero aumentate così rapidamente da costituire una quota significativa delle nascite totali - oggi una su sette, tra pochi anni una su cinque; che la durata della vita avrebbe continuato ad allungarsi velocemente. Eppure tutto questo è avvenuto, a compensare una natalità che è rimasta tenacemente avvinghiata al modello di coppia con uno o due figli, con un predominio delle persone che scelgono di non averne rispetto alle poche che ne hanno più di due. Una cifra tonda, naturalmente, non significa nulla - ma può essere occasione di qualche riflessione. Anzitutto sui tempi della crescita: la popolazione del paese superò i 30 milioni nel 1883; per aggiungere altri 10 milioni e toccare i 40 di anni ce ne vollero quarantacinque (1928) e per arrivare a 50, altri trentadue (1960) nonostante la guerra; quarantotto anni sono poi trascorsi per approdare a quota 60 (2008). Ma attenzione: a questa cifra non saremmo mai arrivati senza l´apporto degli stranieri; anzi, le previsioni pubblicate una diecina di anni fa dalle Nazioni Unite, che ipotizzavano una debolissima immigrazione, prefiguravano che nel 2030 l´Italia sarebbe ridiscesa a 50 milioni, come nel 1960. Questa considerazione ci riporta al grande interrogativo: quale sarà la sorte degli stranieri nella società italiana? Oggi sono quattro milioni, ma (se contiamo i loro figli) saranno forse raddoppiati verso il 2020. C´è in corso un confronto tra due visioni contrapposte: quella che vede nell´immigrazione una "protesi", possibilmente temporanea, e quella che la considera un "trapianto". Una protesi, uno strumento, un´estensione, che sostiene l´economia, le imprese o le famiglie in difficoltà, perché mancano i braccianti per il raccolto, i manovali per costruire case, gli operai per le manifatture, le bambinaie per le famiglie, le infermiere per gli ospedali. Una protesi che ha anche un costo, ma da comprimere al minimo: se i ricongiungimenti familiari sono obbligatori (lo impone l´Europa) che questi siano resi difficili; non si ecceda con i diritti sociali e non si concedano i diritti politici (l´Europa non lo richiede). Una protesi, della quale ci si possa disfare facilmente una volta che divenga obsoleta o quando si presenti una crisi economica o un mutamento del mercato. L´altra visione è l´immigrazione trapianto: gli immigrati sono pezzi di società, che da altri paesi si insediano nel nostro e che sono destinati a diventarne parte integrante. Che si sostituiscono ai vuoti che si determinano tra gli autoctoni, non solo per rimpiazzarli nel lavoro, ma per sostituirli nella complessa vita sociale. Il milione di rumeni giunti disordinatamente in Italia in pochi anni, si stanno già trasformando in un pezzo di società italiana costituito non solo di centinaia di migliaia di badanti e muratori (e di qualche avanzo di galera malauguratamente sfuggito alla giustizia) ma da studenti, artigiani, imprenditori, operai, impiegati, pensionati; bambini, donne e uomini. Seppure l´occasione iniziale dell´immigrazione è il lavoro, poi attorno al lavoratore o alla lavoratrice si ricostituisce un nucleo familiare: parenti ricongiunti che poi, a loro volta, cercano lavoro; figli che crescono, vanno a scuola e destinati (prima o poi) a diventare cittadini italiani. Insomma un´immigrazione di insediamento, di popolamento, di cittadinanza. Un innesto da curare, non da ostacolare con politiche ostili. Il bisogno di immigrazione è strutturale - la recessione incipiente potrà alleviarlo temporaneamente - e l´adesione al modello di immigrazione protesi rischia di nutrire una categoria subalterna (gli immigrati e i loro figli) con poche prerogative, più vulnerabile, senza diritti politici, formata da persone "meno uguali" delle altre. Cioè un´Italia divisa, strutturata in una sorta di moderato e mediterraneo apartheid sociale.