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 2008  dicembre 08 Lunedì calendario

Biografia di Moira Orfei raccontata da lei stessa

Il Giornale, domenica 7 dicembre 2008 Ha ragione Cormac McCarthy: non è un paese per vecchi. La signora Miranda Orfei, 77 anni tra due domeniche, è stata accolta in Veneto da scritte spray alte un metro: «Moira attenzione conoscerai la legge del bastone». Le ha tracciate il gruppo «100% animalisti». Non potendo contare sulla solidarietà di un’associazione «50% umanisti» - anche solo 20%, toh - la monarca assoluta del più grande circo italiano si difende da sola. Graffia l’aria con le unghie posticce, tre centimetri scarsi, laccate di nero: «Ma perché uno di questi signori non viene a farsi scritturare in incognito come stalliere? Così vede come trattiamo i nostri animali. Ne abbiamo un centinaio. Tutti nati qui, in cattività, mica strappati alla savana. Tutti ben pasciuti, leoni e tigri con 10-15 chili di carne al giorno. Neanche un cagnolino, se fosse bistrattato, eseguirebbe un ordine». Foro Boario di Padova. Piove a dirotto e tira vento. Tre gradi. «Ho una di quelle influenze...». Dentro la roulotte illuminata dai neon rosa, Moira Orfei, quasi afona, si cura a modo suo. Ingurgita sorsate gelide da un bicchierone contenente più cubetti di ghiaccio che acqua. «Terroristi! Ma lo sa che cos’hanno combinato a Vicenza? Hanno fatto irruzione sotto il tendone, urlando e lanciando in aria 2.000 volantini, mentre il domatore era dentro la gabbia. Le tigri si sono innervosite parecchio. Poteva finire male. E invece, miracolo! Gli spettatori si sono ribellati: hanno preso quei delinquenti per un orecchio e li hanno buttati fuori. Se non fossero intervenuti i nostri guardiani a trattenere i padri inferociti, li avrebbero riempiti di botte. Qualche sganassone l’hanno cuccato lo stesso». Moira degli elefanti ha un ginocchio ammaccato: «Sono caduta dalle scale andando a trovare mia figlia Lara che abita a San Donà di Piave. Io sono nata per sbaglio poco distante, a Codroipo, ma non mi considero friulana. Mi sento bolognese». agghindata come sempre, come le aveva prescritto nel 1960 il produttore Dino De Laurentiis scritturandola per il primo film, «’solo così avrai personalità e diventerai unica”, mi diceva», quindi ha ancora il suo bel attico di capelli nero d’inferno raccolti nella retina. Ma intimamente si sente maschia e calva: «Dopo Mussolini, vengo io. La gente non sa che fra i costi di un circo, 25.000 euro al giorno, ci sono le bonifiche. A Mestre, nonostante il fior di plateatico versato al Comune, ci hanno messo a disposizione una palude. Per piantare l’accampamento ho dovuto far arrivare 11 camion di ghiaia. Sono 12 metri cubi a viaggio, quasi due tonnellate e mezzo di roba. Che si sappia: il circo Moira Orfei lascia le città d’Italia migliori di come le trova». All’estero non ci va più da quando l’ayatollah Khomeini la tenne prigioniera per sei mesi a Teheran. «Ho fatto un’eccezione soltanto per il colonnello Gheddafi. La sera dopo lo spettacolo mi sono vista recapitare un mazzo di 100 rose rosse. Credevo fossero per me: invece erano di un ufficiale libico che s’era invaghito di Antonio Paniz, uno dei miei quattro segretari. Sa com’è, gli arabi non stanno lì a far tante differenze...». Paniz annuisce ironico: «Sempre di un colonnello si trattava. Senza di lui, saremmo morti di fame. C’era appena stato l’attacco americano. Ci procurava le vettovaglie al mercato nero». Nonostante la silhouette appesantita, il cibo non sembra in cima alle preoccupazioni di Moira Orfei. Non c’è la cucina, e neppure la sala da pranzo, nel suo appartamento che viaggia su 24 ruote, pavimentato con granito brasiliano, tutto ninnoli e tende di pizzo, vegliato da dieci statuette di padre Pio. Eppure ci starebbero entrambe: è lungo 24 metri e largo 6, ha un salotto, una camera matrimoniale con gli specchi dai riflessi rosati, un grande bagno e persino una stanzetta per gli ospiti. «Non voglio odore di fritti in casa mia. Sente puzza? No, vero? Preferisco mettermi a tavola nella nostra mensa. Siamo in 220. uno spettacolo nello spettacolo». All’ingresso del caravan sono appese due celebri foto in bianco e nero: una ragazza slanciata, vestito candido come le scarpe e la borsetta, s’avvia verso un muro di uomini ipnotizzati esponendo il suo lato B a mandolino all’obiettivo di Fedele Toscani, il padre di Oliviero; nella seconda la si vede mentre cammina nella direzione opposta. «Moira mezzo secolo fa. Bloccava il traffico», svela Paniz. «Anche adesso mi riconoscono da dietro, ma solo per i capelli», sospira lei. Sciolti, fin dove le arrivano? «Ai glutei. Col Bioscalin mi ricrescono da matti». Al mattino quanto ci mette a rifarsi la matassa? «In un’ora sono pronta, trucco compreso». Senza capelli nessuno la riconoscerebbe. «Tagliarmeli? Mai». Purtroppo a volte basta una chemio. «Tiè!». (Fa le corna). «Ho già avuto un ictus due anni fa a Crotone. Sono scappata via. Ho noleggiato un’ambulanza a pagamento e mi sono fatta portare al San Carlo di Roma, dal dottor Romolo Petrucci, che in sei mesi mi ha rimesso in piedi». Com’è che io la vedo sempre della stessa età di quand’ero bambino? «Me l’ha chiesto anche un turista tedesco nel 2005 all’hotel Laguna Palace di Venezia. Diglielo tu, Antonio, che mi sei testimone da trent’anni: ho mai fatto un lifting?». (Paniz scaccia da sé il sacrilego sospetto con un gesto della mano). «Avrei il terrore del bisturi, di rimanere sotto i ferri». La pelle è di una trentenne. «Mai lavato piatti, mai sciacquato panni».  una vita dura, la vostra? «Una dittatura. Siamo sempre in lotta con la furia degli elementi, soprattutto il vento, come i marinai». Ha visto morire qualcuno sul lavoro? «Mio padre. Si chiamava Riccardo Orfei, ma tutti lo conoscevano come clown Bigolon. Dal trampolino doveva saltare quattro elefanti. Cadde. Un’insaccata ai polmoni. Aveva 33 anni, io appena 6. Lasciò cinque figli. Mi ha cresciuto la mamma, Violetta Arata. Camminava sul filo. morta a 58 anni». E gli elefanti sono passati a lei. «Ne ho sette. Il più anziano, Whisky, ha già 50 anni. Gliene restano 20, se tutto va bene. Pesa 70 quintali. Io mi sdraiavo per terra e lui mi passava sopra, senza calpestarmi, si capisce. Ma ho lavorato anche con i leoni, le foche, i cavalli. Adesso faccio solo il giro finale per i saluti. Il pubblico vuole vedermi. Chiedo ai bambini: che cosa vi è piaciuto di più? ”Gli animali”, rispondono in coro. Senza i numeri con gli animali, il circo non può esistere». Da chi ha imparato a domare i leoni? «Da mio marito, Walter Nones. Siamo insieme da 50 anni, anche se ci siamo sposati solo nel 1962. Ho dovuto essere io a fargli la corte. Mio zio Orlando lo scritturò per la trasmissione televisiva Il mattatore che andava in onda con Vittorio Gassman dal nostro circo». Ma voi circensi non andate in pensione? «No. Per scelta. Neanche in vacanza. Lavoriamo 365 giorni l’anno e i 250 di spettacolo sono i meno faticosi, perché le trasferte ti stroncano». A quanti anni dovrebbero andare in pensione gli italiani, secondo lei? «Dovrebbero lavorare fin che possono farlo». Lei era una doppiolavorista. «Altroché: 45 film. Ne giravo due al colpo». Da «Sotto dieci bandiere» del 1960 a «Vacanze di Natale» del 1990 a me ne risultano 39. «Di più, di più». Che cosa ricorda del primo film? «Il bicchiere del whisky. Bevevano tutti come pazzi, a cominciare dal grande Charles Laughton. Van Heflin sembrava un’aragosta, il naso sempre rosso». Chi le aprì le porte del cinema? «Duilio Coletti, il regista di Sotto dieci bandiere, che mi aveva visto lavorare al circo». Però fece colpo anche su Carlo Ponti. «Ponti era bruttissimo e gentilissimo. La prima volta che lo incontrai mi dissi: ma come diavolo ha fatto Sophia Loren a sposare uno così? Poi cominciò a parlare e capii: aveva un eloquio che t’incantava. Comunque Pietro Germi, mentre giravamo Signore e signori, continuava a ripetermi: ”Se studi, diventi più brava della Loren”». Per questo non è diventata una grande attrice? Perché non ha studiato? «Perché non mi mostravo nuda. Restavo solo in baby-doll. Dino Risi non si dava pace. In Profumo di donna mi aveva assegnato il ruolo di Mirka, la puttana: ”Sei fatta così bene, perché non vuoi spogliarti?”. Ma neanche per un miliardo! Io lavoro per i bimbi e le mamme. Non sono come quelle della Tv, che vivono con i culi e le tette al vento. Ho imparato da mia madre. Le donne del circo sono così». Pudiche. «L’uomo che allunga le mani mi fa schifo. Ci hanno provato tutti, compreso Marcello Mastroianni. Totò voleva regalarmi 30 milioni di lire solo per stare una notte in mia contemplazione. ”Non facciamo niente, ti accarezzo e basta”, diceva. Ma io sono sempre stata fedele al mio Walter». E Walter? «Ne dubito, ma non ho prove. Anche adesso che ha 70 anni, ne dimostra 50. Bello, alto, fatto bene. Abbiamo 12 ballerine russe, qua, una più avvenente dell’altra, prima erano 24, non le dico altro... Una volta l’ho visto entrare nella roulotte di una di loro. Ho sparso benzina tutt’intorno e lui è corso giù quando avevo già il fiammifero in mano. Ha negato. Non esiste uno più bravo di lui a negare, è meglio di un avvocato». Dalle cronache risulta che lei ha avuto una storia con Umberto Masetti, campione del mondo di motociclismo nel 1950 e nel 1952. Le regalò pure un leone. «Un leone? Che balle! Uno dei trecentomila filarini che mi hanno attribuito. Mi ha corso dietro per due anni, poveretto. Ma io dicevo di no a tutti. Sono arrivata vergine al matrimonio. Altrimenti Walter non mi avrebbe sposato. Ha una mentalità araba». Lei ha dichiarato che a letto suo marito è «sboccato e sporcaccione». «Sboccato no! Vero, Antonio?». (Paniz, serafico: «Non lo so, non sono mai stato a letto con lui»). «Comunque, fa ancora il suo dovere». Senza bisogno di aiutini? «Il Viagra, intende? Nooo! terrorizzato dalle pillole blu, ha paura di finire come uno dei miei quattro segretari. A 70 anni è andato con un’amichetta di 20 e c’è rimasto secco». Perché le hanno attribuito la definizione di «icona gay»? «Perché li amo. Le donne sono invidiose. Gli uomini vogliono solo quella cosa là. Invece i gay si comportano da fratelli». Qua bisogna decidersi: «La Stampa» ha scritto che è Raffaella Carrà l’icona dei gay. «Lo era. Anche Mina lo è stata. Adesso sono io. Le ho fatte fuori tutt’e due». Anche per Platinette il mito degli omosessuali è la Carrà. «Traditrice! E pensare che quando mi vede si mette in ginocchio. Le drag queen si vestono da Moira, e Platinette lo sa bene. Al Gay pride di Torre del Lago sono andati in delirio in 20.000 per me. Mi avevano preparato un trono d’oro e piume». Ci sono molti gay nel suo circo? «Almeno 15 o 20. Uno lavora al bar, uno lavora con i leoni, uno lavora con gli elefanti...». (Paniz: «Uno lavora per strada»). Le piacerebbe avere un nipotino che s’innamora di un maschio? «Nooo!». (Mi sfiora la mano). Perché mi sfiora la mano? pentita d’averlo detto? «Sì. Non m’interesserebbe, ecco». E come spiegherebbe, a suo nipote, che un uomo travestito da donna è stato prima deputato al Parlamento e poi ricoperto di soldi dalla Tv di Stato, 200.000 euro, per aver vinto all’«Isola dei famosi»? «Non glielo spiegherei. inspiegabile. Anche se sono amica di Vladimir Luxuria». Lei ha mai pensato di travestirsi da uomo? «Nooo! Mai portato i pantaloni in vita mia».  vero che suo trisnonno era un monsignore? «Verissimo. Si chiamava Ferdinando Orfei. Era nato in Umbria. Andò a fare il missionario nel Montenegro. S’innamorò di una zingara, Veka Torevic, e se la portò in Italia. Campavano esibendosi con un orso e quattro cagnetti». Si sente zingara? «Sì. Nelle vene ho sangue di prete e sangue di zingara. Ma gli zingari del Montenegro è meglio che stiano dove sono nati. Preferisco gli zingari d’Abruzzo, sono più onesti». Perché gli italiani hanno paura degli zingari? «Perché vanno a rubare, diobbono, rovinano le famiglie». E lei, allora, che di notte va per cimiteri? «Ma lo faccio a fin di bene, senza scopo di lucro, per togliere il malocchio. Me l’ha insegnato mio nonno, Paolo Orfei. Preparo una certa cosa che non posso dire. Do la mancia al custode perché mi faccia entrare alle 2 di notte fra un giovedì e un venerdì; sposto un po’ di terra da una tomba qualsiasi e seppellisco quello che ho preparato. Ecco fatto». Che cos’è il malocchio? « l’invidia, caro mio. La cosa più brutta. Ho salvato una mamma che stava morendo all’ospedale». Non poteva pregare padre Pio? «Faccio anche quello. Qualche sera fa ho visto ad Affari tuoi quel precario, secondo di sei fratelli, fidanzato da 22 anni, che non poteva sposarsi per mancanza di soldi. Mi ha fatto pena. Ho girato questa statuetta di padre Pio verso il televisore e il santo gli ha fatto vincere mezzo milione di euro. Chieda alle mie cassiere bulgare, Cecilia Adalbertova e Veselka Lukanova, che hanno assistito alla scena: non volevano credere ai loro occhi. Padre Pio tanti anni fa fece una grazia anche a me. Andai a San Giovanni Rotondo per ringraziarlo, ma occorrevano tre giorni per essere ricevuti e io non potevo aspettare, il circo doveva spostarsi in un’altra città. L’anno dopo era morto. Tornai: neanche una persona sulla sua tomba. Piansi tanto». Come per Papa Wojtyla. «Per lui ho pianto tre giorni». Nemmeno una lacrima per Pacelli, Roncalli, Montini e Luciani? «No. Tutti mi hanno ricevuto in udienza. Ma solo con Giovanni Paolo II, quando ha messo le sue mani fra le mie, ho capito di amare il Papa». Per chi altro ha pianto nella sua vita? «Per Walter. Fu preso dai leoni. Naso, braccia, mani, petto... Cicatrici dappertutto. Il suo corpo è una carta geografica». Stefano Lorenzetto LORENZETTO Stefano. 52 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ”75. stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama, Monsieur e Quattroruote. Sei libri: Fatti in casa, Dimenticati, Italiani per bene, Tipi italiani, Dizionario del buon senso e Vita morte miracoli. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. LORENZETTO Stefano. 52 anni, veronese. Assunto a L’Arena nel ”75. stato vicedirettore del Giornale e autore Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama, Monsieur e Quattroruote. Sei libri: Fatti in casa, Dimenticati, Italiani per bene, Tipi italiani, Dizionario del buon senso e Vita morte miracoli. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo.