Giovanni Porzio, Panorama, 11 dicembre 2008, 11 dicembre 2008
GIOVANNI PORZIO PER PANORAMA 11 DICEMBRE 2008
Si fa presto a dire al qaeda
India La strage di Mumbai porta sotto i riflettori la galassia terroristica che opera fra India e Pakistan. Una rete capillare che si ispira a Bin Laden, ma agisce autonomamente. E potrebbe far esplodere una guerra tra due potenze nucleari.
La linea di controllo su cui sono attestate le truppe di Islamabad e di New Delhi attraversa il greto del Jhelum, fiume che da Srinagar scende fino a Muzaffarabad, capoluogo dell’Azad Kashmir, il «Kashmir liberato» in territorio pachistano. in queste valli anguste e isolate, sovrastate da montagne accessibili solo a piedi, che Azam Amir Qasab, l’unico componente del commando di Mumbai catturato vivo, ha ammesso di essersi addestrato con i suoi compagni del Lashkar-e-Taiba, l’Esercito dei puri, prima di imbarcarsi a Karachi per compiere l’eccidio di fine novembre. Obiettivo: sabotare il processo di distensione tra le due potenze nucleari del subcontinente e spostare il fronte della jihad a Oriente, tra i 150 milioni di musulmani indiani. un piano che i due governi e le diplomazie tenteranno con ogni mezzo di far deragliare. George W. Bush ha inviato Condoleezza Rice a New Delhi e il Pakistan è in cima alla lista delle priorità di politica estera di Barack Obama. Ma che ha già ottenuto il risultato di mettere a nudo contraddizioni e difficoltà della guerra al terrorismo nel triangolo dell’integralismo islamico, che dalle pianure afghane del- l’Helmand e dai santuari qaedisti delle aree tribali pachistane allunga la sua ombra mortifera fino ai contrafforti himalaiani del Kashmir. L’efficienza militare del commando, il livello di preparazione e la simultaneità degli attacchi non sembrano lasciare dubbi sull’identità degli esecutori materiali della strage. Il Lashkar-e-Taiba aveva già colpito nel 2001 (attentato al parlamento di Delhi) e, proprio a Mumbai, nel 2006 (200 morti alla stazione ferroviaria e nella metropolitana). E quasi certamente ha operato in stretta collaborazione con basisti e miliziani locali affiliati ai mujaheddin indiani, emanazione del fuorilegge Movimento degli studenti islamici, che negli ultimi anni ha rivendicato decine di attentati con centinaia di vittime a Delhi, Bangalore, Jaipur e Ahmedabad. Ma non è affatto certo che abbia agito su istigazione di Al Qaeda. Anzi, Cia, intelligence britannica e servizi segreti russi tendono a scartare l’ipotesi di un ruolo attivo dell’organizzazione di Osama Bin Laden. «Gli attentatori condividono l’ideologia del gruppo di Bin Laden» dice a Panorama Rohan Gunaratna, l’esperto di antiterrorismo che ha coordinato il lavoro delle Nazioni Unite su Al Qaeda e che ora dirige il Centro sulla violenza politica e il terrorismo di Singapore. « probabile che Al Qaeda abbia ispirato la scelta di obiettivi iconici come il Taj Mahal e lo stile di un attacco ad alto effetto spettacolare. Tuttavia, da questo non si può concludere che abbia avuto rapporti diretti con gli autori del massacro». Dall’Iraq all’Indonesia la capacità operativa di Al Qaeda è stata fortemente ridimensionata. La sua struttura di comando, braccata sulle montagne al confine afghano-pachistano, è stata decimata. Però il marchio e l’ideologia di Al Qaeda sono stati adottati da una galassia di gruppi armati che, nel Maghreb come in Somalia o alle estreme propaggini dell’arcipelago filippino, ne hanno mutuato le tecniche terroristiche e le finalità eversive. «Attaccare obiettivi come i grandi alberghi è più agevole che colpire le forze dell’ordine o le ambasciate» osserva Gunaratna. «Il significato profondo degli attentati a Mumbai sta nell’ascesa del terrorismo islamico in Asia in un periodo in cui i gruppi operanti in Medio Oriente sembrano indeboliti. La minaccia è talmente forte che spingerà i governi di Delhi e Islamabad a una più stretta collaborazione». una sfida dall’esito incerto. Il premier indiano Manmohan Singh e il neopresidente pachistano Ali Zardari hanno un comune interesse: disinnescare la bomba a orologeria del fondamentalismo islamico che dall’Afghanistan sta tracimando nel subcontinente. In India, dove nonostante il boom economico centinaia di milioni di contadini vivono ancora in abietta povertà, i conflitti sociali e religiosi si sono acutizzati. I maoisti del Movimento naxalita si sono consolidati nel Bengala occidentale e guadagnano consensi nelle zone rurali dell’Andhra Pradesh e sugli altipiani centrali. Fra i musulmani, 14 per cento della popolazione, i seguaci degli imam radicali trovano terreno fertile per diffondere appelli alla guerra santa: per liberare il Kashmir e liberarsi dal «giogo induista e dell’Occidente». In Pakistan le 27 mila madrase wahhabite continuano a sfornare legioni di seminaristi votati al martirio e l’intera regione ai confini afghani, il «pashtunland» dove si nascondono Bin Laden e Ayman al-Zawahiri, è di fatto governata dai talibani, dai jihadisti pachistani e da Al Qaeda. A Quetta, capoluogo del Baluchistan, migliaia di seguaci del mullah Omar frequentano moschee e scuole coraniche (in particolare la madrasa Shaldara, diventata il loro quartier generale), mentre la società di produzione al-Sahab, da anni il principale strumento mediatico di Al Qaeda, diffonde sul web i proclami di Bin Laden e i videoclip che esaltano le imprese dei mujahiddin, decapitazioni e sgozzamenti di ostaggi inclusi. Nelle aree tribali, dal Waziristan alle catene montuose delle province del nord-ovest, dal corridoio di Bajaur alla valle dello Swat (dove l’ennesima autobomba, l’1 dicembre, ha ucciso nove civili), i 100 mila soldati schierati da Islamabad sono nel mirino dei movimenti armati sostenuti da settori deviati dell’Isi, l’intelligence militare. L’Isi è il principale accusato della strage di Mumbai: da sempre foraggia e addestra i gruppi islamici antiindiani, dal Lashkar-e-Taiba in Kashmir all’Harkat ul-Jihad ul-Islami in Bangladesh; i suoi agenti sono in contatto con Baitullah Mehsud, il leader talibano del Waziristan ritenuto responsabile dell’assassinio di Benazir Bhutto, e sono sospettati di avere organizzato l’attentato di luglio all’ambasciata indiana di Kabul. Il nuovo capo di stato maggiore, Pervez Kayani, ha cercato di riprendere il controllo dell’Isi nominando al suo vertice, a settembre, il generale Ahmed Pasha. Ha poi intimato agli ufficiali di lasciare i posti che occupano nell’amministrazione civile. Ma il potere, in Pakistan, è ancora in mano all’esercito e agli apparati di sicurezza, che attraverso quattro fondazioni e tre imprese controllano un giro d’affari pari al 6 per cento del pil nazionale (banche, assicurazioni, servizi, energia, costruzioni, trasporti) e sono i principali beneficiari dei 5,4 miliardi di dollari sborsati dagli Stati Uniti dal 2002 per la lotta al terrorismo: il 70 per cento dei quali, secondo l’ambasciata Usa a Islamabad, è stato intascato dai militari o speso in sistemi d’arma sul versante indiano. Il presidente Zardari, che nelle scorse settimane aveva riannodato il dialogo con New Delhi sul dossier nucleare, è in posizione di estrema debolezza. Stretto fra India e Usa, che da mesi intervengono con i reparti speciali anche in territorio pachistano, deve misurarsi su tre fronti: Kashmir, Afghanistan e islamismo radicale interno. Chiunque abbia pianificato il raid di Mumbai era consapevole che in India sarebbe stato interpretato come l’ultimo episodio della guerra che tormenta i due paesi da oltre 60 anni. Un conflitto che gli sponsor multiformi e senza volto del terrore faranno di tutto per rendere insanabile.