Mario Deaglio, La Stampa/Tuttolibri 6/12/2008, 6 dicembre 2008
Negli Stati Uniti non si vedono ancora file di disoccupati in coda per la minestra, come negli Anni Trenta, ma le statistiche sono senza pietà e lasciano poche illusioni: quasi due milioni di posti di lavoro sono stati perduti nei primi undici mesi dell’anno, oltre mezzo milione dei quali, in un impressionante crescendo, si sono polverizzati nello scorso mese di novembre
Negli Stati Uniti non si vedono ancora file di disoccupati in coda per la minestra, come negli Anni Trenta, ma le statistiche sono senza pietà e lasciano poche illusioni: quasi due milioni di posti di lavoro sono stati perduti nei primi undici mesi dell’anno, oltre mezzo milione dei quali, in un impressionante crescendo, si sono polverizzati nello scorso mese di novembre. Il periodico rapporto della Fed, la banca centrale americana, mostra una crisi che si estende a velocità mai vista, che tocca tutti i comparti dell’economia americana e la cui virulenza non promette affatto di diminuire nei prossimi mesi. Non a caso, il presidente eletto, Barack Obama, ha dichiarato che la situazione è destinata a peggiorare. Per gli Stati Uniti, nel breve periodo, c’è ben poco da fare. Vissuti per quasi due decenni in una cultura che aveva rimosso l’idea stessa di crisi, gli americani risultano tecnicamente e psicologicamente impreparati a subirne una. Non esiste alcun bottone magico da schiacciare, alcuna misura semplice perché gli Stati Uniti possano uscire in tempi brevi da questa pesantissima situazione; la riduzione del costo del denaro ha frenato temporaneamente la spinta depressiva ma, nell’attuale situazione, non crea alcuna spinta positiva; gli interventi di salvataggio finanziario ingessano il malato ma non bastano a rimetterlo in piedi. A questo punto è indispensabile che gli europei si domandino se sono necessariamente costretti a essere risucchiati nel gorgo della caduta americana. Molti pensano di sì: in Germania, la Bundesbank, prevede per il 2009 le peggiori condizioni economiche da 16 anni; il pessimismo è molto profondo in Gran Bretagna, la Spagna combatte a fatica contro una violenta crisi edilizia. E tuttavia la «variante europea» della crisi è nettamente meno virulenta di quella americana e potrebbe risolversi con una caduta produttiva più ridotta e più breve. Che cosa rende l’Europa meno vulnerabile dell’America? Il risparmio delle famiglie. Le famiglie americane sono state abituate da due generazioni a spendere oggi i soldi che presumono di incassare domani; per anni i consumi delle famiglie americane sono stati alimentati dai guadagni di Borsa, ora la riduzione dei consumi è determinata anche dalle perdite del listino; le loro carte di credito non hanno più credito residuo, i conti in banca sono quasi sempre in rosso. Non si può quindi far conto su un sussulto della voglia di consumare che non sarebbe accompagnata, sempre nel breve periodo, da alcuno strumento finanziario per soddisfarla. L’Europa non è così. Quando spendono, o, viceversa, decidono di non spendere, gli europei - con l’eccezione degli inglesi - spendono o non spendono soldi propri. Per questo in Europa una molla importante per la tenuta dell’economia è in mano ai risparmiatori-consumatori che, per parafrasare un detto di Einaudi, sono dotati di memoria di elefante (che li ha portati subito a ricordare gli Anni Trenta) cuore di coniglio (che li induce a non prendere alcun rischio) e gambe di lepre (che li hanno fatti scappare dai supermercati come dai mercati finanziari). Ma sono anche dotati di un conto in banca quasi sempre in nero anziché in rosso. Questa situazione, così diversa da quella americana, raggiunge la sua massima peculiarità in Italia, come si ricava dal 42° Rapporto Annuale del Censis, reso noto ieri, più della metà delle famiglie italiane non ha veri problemi finanziari. Il Rapporto ritrae un paese impaurito più che indebitato, capace di tenuta «trasversale», sul quale una modesta ridistribuzione a favore delle fasce di reddito più basso potrebbe sostenere i consumi più che in altri paesi. Non si tratta, naturalmente, di «consumare per consumare» ma di non rinunciare a consumi abituali per paure irrazionali, oggi molto diffuse; si può così costituire uno «zoccolo duro» di tenuta nei prossimi mesi sul quale provare a costruire una ripresa, magari con nuovi prodotti più a buon mercato e - per dirla con Giuseppe De Rita, che del Censis è da anni l’animatore - più «frugali», più adatti allo spirito dei tempi. Occorrerebbe aggiungere che proprio questa situazione di emergenza può rappresentare l’occasione perché si formi un consenso sociale attorno a molte delle riforme da troppo tempo tenute nel cassetto. In questa terribile tempesta dell’economia mondiale, insomma, rischiano assai di più i paesi simili a moderni velieri costruiti per le regate che una chiatta, pesante, assai lenta ma molto stabile come è l’economia italiana. Non basta però che la barca italiana corra meno rischi e che derivi un vantaggio dall’essere vecchia. Occorre che questo vantaggio venga sfruttato; se è vera l’analisi di De Rita, i consumi natalizi faranno registrare soltanto una flessione relativamente modesta e il momento della verità verrà dopo Natale quando milioni di famiglie, e l’élite politica che le governa, dovranno prendere decisioni che vanno dai bilanci famigliari ai bilanci pubblici. Se in Europa e in Italia prevarranno i «cuori di coniglio», se tutti giocheranno a un «taglia, taglia» indiscriminato, seguiremo l’America nel baratro di una crisi incerta e di lunghezza indeterminata. Quanto più saremo, a tutti i livelli, razionali e responsabili, tanto meno lunga e dura risulterà la crisi. mario.deaglio@unito.i Stampa Articolo