Ruggero Bianchi, La Stampa/Tuttolibri 6/12/2008, 6 dicembre 2008
L’hanno paragonato ai crudi reportage di Jack London sui bassifondi urbani, ma Inverno alla Grand Central di Lee Stringer ha ben poco in comune con lavori quali Il popolo dell’abisso, cronaca spietata della sua full immersion negli slum londinesi
L’hanno paragonato ai crudi reportage di Jack London sui bassifondi urbani, ma Inverno alla Grand Central di Lee Stringer ha ben poco in comune con lavori quali Il popolo dell’abisso, cronaca spietata della sua full immersion negli slum londinesi. Proprio come si differenzia nettamente da altri classici dedicati alla vita dei miserabili e dei vagabondi di cui abbonda la narrativa angloamericana del Novecento, quali Vita da cani di Edward Dahlberg. Tanto per cominciare, il mondo vissuto e raccontato da Stringer pullula di homeless stanziali, non quindi di piccoli avventurieri erratici pronti a saltare sul primo treno merci che rallenti per cercar riparo in un carro bestiame. Hanno, paradossalmente, un’ideale fissa dimora alla Grand Central, la più grande stazione ferroviaria di New York: un luogo che a modo suo è il gigantesco equivalente sottoproletario del Plaza o del Waldorf, con materassi di cemento o di asfalto e stanze che sembran loculi o anfratti di caverne, ma brulicante di vita come un grand hotel. Qui, a sentir l’autore (che è stato per anni uno di loro), vivono i moderni barboni che, almeno in parte, sono tali per scelta più che per necessità. Vanno e vengono da questo snodo affollato in un viavai continuo non meno frenetico di quello dei viaggiatori, arrabattandosi in mille modi per sbarcare il lunario e praticando senza mai strafare l’arte di arrangiarsi: riempiendo sacchi neri di lattine vuote da vendere nei supermercati a un nichelino al pezzo; distribuendo giornaletti che informano sul loro mondo e il loro giro di «colleghi» ma anche i «turisti» in cerca di esotiche stranezze e curiosità; riciclando le confezioni di cibo buttate via dai supermercati il giorno della scadenza. Uno stile di vita anomalo e personalizzato praticato, si direbbe, con spavalderia più che sofferenza e soprattutto con una buona dose di ironia e autoironia. Un modo tutto particolare per riproporre in chiave spicciola e sotterranea il mito del selfmade-man e dell’America come land of opportunities. Ma, in altra prospettiva, il volume è anche un piccolo manuale di sopravvivenza in un mondo sempre più sull’orlo del collasso. Non a caso il primo a tesserne le lodi è stato Kurt Vonnegut, i cui cupi universi alternativi hanno un forte sapore di presente. L’esistenza quotidiana degli homeless di Stringer segue d’altronde norme condivise anche da altre categorie metropolitane, esse pure maestre nell’arte di arrangiarsi: i volontari dei Centri di Assistenza Pubblica, ad esempio, che si accaparrano le derrate alimentari destinate dagli enti filantropici ai barboni; o gli agenti, gli ispettori e le guardie giurate delle Ferrovie, che devono giustificare lo stipendio e meritarsi qualche gratifica consegnando alle autorità gli irregolari senza fissa dimora che non rispettano i divieti comunali; o i giudici che fanno un predicozzo ai fermati e poi li lasciano subito andare, perché tanto anche la loro routine è inutile come la fatica di Sisifo. Stampa Articolo