Gianfranco Marrone, La Stampa/Tuttolibri 6/12/2008, 6 dicembre 2008
L’estate scorsa, nel solito afoso periodo in cui scarseggiano le notizie, il sultano dell’Oman ha riempito le cronache di alcuni quotidiani locali
L’estate scorsa, nel solito afoso periodo in cui scarseggiano le notizie, il sultano dell’Oman ha riempito le cronache di alcuni quotidiani locali. Vagava fra i porti del Meridione (Bari, Palermo, Cagliari...) con il suo yacht straordinario e uno stuolo infinito di funzionari al seguito, facendo sfoggio della sua straordinaria ricchezza e della sua commovente munificenza. Rinchiuso nei salotti della sua sfarzosa reggia galleggiante, spendeva e spandeva tramite i suoi uomini in gioiellerie e ristoranti esclusivi, elargiva donazioni a più non posso, organizzava concerti e cene per i pochi vip fortunosamente a disposizione durante il ferragosto. Insomma, alimentava il proprio mito regale: faceva sognare ostentando lussi, per definizione, inaccessibili ai comuni mortali. Ma è un mondo ormai in declino, un modo di intendere e vivere il lusso che fa parte di un immaginario che non fa più parte della nostra attuale cultura (postmoderna, sovramoderna, liquida o comunque la si voglia definire) e, soprattutto, della congiuntura economica che la supporta. Oggi il lusso è per tutti, ricchi e meno ricchi, a dispetto della contraddizione che tale affermazione apparentemente conserva. A scorrere i dati e le argomentazioni del recente Luxury Brand Management di Michel Chevalier e Gérald Mazzalovo (giù autori dell’ostinato e fortunato Pro Logo) sembrano non esserci dubbi: i classici beni di lusso - gioielli, abiti, profumi, vini, automobili, barche, orologi - non sono più veramente tali, e si rendono disponibili per una vera e propria massa di consumatori che non si costituisce né a partire dal reddito effettivo né dalla reale capacità di comprensione e apprezzamento di ciò che pure desidera e acquista. Questa sorta di «democratizzazione» del lusso, come la definiscono Chevalier e Mazzalovo, non è nemmeno legata, in senso stretto, alla rapidissima ascesa dei neoricchi in Paesi come la Russia o la Cina, con inverosimile liquidità e tanta pacchiana brama di ipergriffarsi. Né si tratta di un obiettivo politico faticosamente raggiunto. «La produzione di massa, la distribuzione ad alta densità, la competizione interna e l’eterno desiderio di sognare sono alla base di questo processo di democratizzazione». Al fondo di tutto ciò sta un modo molto diverso, e assolutamente diffuso in tutte le fasce di reddito, di consumare beni e servizi: che non dipende più da calcoli preventivi su qualità/prezzo o da lunghi ragionamenti e verifiche sulle effettive prestazioni dei prodotti, ma da forme del desiderio e sistemi di valori del tutto avulsi dalla materialità delle cose. Non si acquista più secondo i propri bisogni e le proprie capacità economiche ma secondo l’urgenza di costituirsi un’identità, cangiante e patchwork come dicono i sociologi, ma pur sempre una base per poter dire «io sono (quello che compra quella cosa lì, di quella marca là)». Nel suo ultimo saggio il principale studioso italiano della questione, Giampaolo Fabris, propone per questo di sostituire al termine marketing quello di «societing»: occuparsi di mercato e consumi è tutt’uno col cercare di comprendere i processi di trasformazione sociale. Superata dunque l’epoca del consumo funzionale e pratico, e conseguentemente degli status symbol, emerge il consumo fine a se stesso, per definizione antifunzionale, superfluo, estetizzante, capriccioso. Da qui l’emergere del lusso per tutti, di un modo cioè di entrare in relazione con le cose del tutto privo da ogni praticità e necessità: si consuma non quel che serve ma quel che non serve proprio perché non serve. Il principio di ostentazione dunque rimane sovrano, ma cambia completamente il suo oggetto: non si sfoggiano ricchezze, come il nostro simpatico sultano, ma scampoli di soggettività. Anche a rischio di impegnare al banco dei pegni l’argenteria di famiglia. Stampa Articolo