Riccardo Barenghi, La Stampa/Tuttolibri 6/12/2008, 6 dicembre 2008
Ormai è diventato uno statista. Populista, autoritario, proto-fascista, dittattoriale. Ma comunque statista
Ormai è diventato uno statista. Populista, autoritario, proto-fascista, dittattoriale. Ma comunque statista. Purtroppo, almeno secondo Massimo Giannini, vicedirettore di Repubblica che ha appena pubblicato appunto Lo Statista, il ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo. E purtroppo pure dal punto di vista di Sebastiano Messina, anche lui collega del giornale di Ezio Mauro, che da otto anni scrive il suo corsivo «Bonsai» e che adesso li ha raccolti (ma solo quelli dedicati al premier) in un libro che si intitola proprio Il Presidente Bonsai. Il tema dunque è lo stesso, anzi l’uomo è lo stesso, ma l’approccio dei due autori è molto diverso. Messina è ovviamente ironico, sarcastico, i suoi sono corsivi e in quanto tali devono appunto essere spiritosi, acuminati, beffardi. Giannini invece ci propone un vero e proprio saggio di politica (e di cultura politica) nel quale analizza la metamorfosi di Berlusconi da quando è sceso in campo nel ”94 a oggi, anzi a ieri nel vero senso delle parole visto che il suo lavoro si ferma a novembre. Peccato che il premier non abbia fatto la sua sparata contro i direttori di Corriere e Stampa in tempo affinché Giannini potesse inserirla nel suo libro, ci sarebbe stata benissimo. Una conferma ulteriore alla tesi di tutto il volume. Che Giannini riassume efficacemente in queste righe: «La posta in gioco è una nuova, subdola ma comunque pericolosa forma di egemonia politico-culturale. E’ lo svuotamento e il depotenziamento dei ”luoghi” nei quali si sviluppano una riflessione oppositiva e una visione positiva sull’Italia che c’è e su quella che ci vorrebbe. E’ l’assenza di poteri autonomi che bilanciano lo strapotere dell’esecutivo, dalle istituzioni all’establishment economico-finanziario, ridotto a un puro ruolo di vassallaggio, ricattato e ricattabile attraverso il meccanismo incestuoso delle concessioni governative e il circuito perverso del finanziamento bancario. E’ lo sgretolamento coatto dei contenuti della politica, lo smantellamento sistematico della verità dei fatti, il disfacimento scientifico del linguaggio, che trasforma l’informazione in ”rumore bianco”, ininfluente e inascoltabile, e omogeneizza tutto, il consenso e il dissenso, nel frullatore dell’assenso. Il risultato è un conformismo piatto e irriflessivo, un senso comune vacuo e dominante. Il confine tra l’egemonia politico-culturale e la tirannia socio-istituzionale è più labile di quanto si pensi». Se questo è il quadro, c’è poco da stare allegri. E infatti l’autore non lo è per niente, tantomeno quando si inoltra nella descrizione dei comportamenti del premier, nell’analisi di quello che ha fatto e fa, nei suoi gesti autoritari, nella sua creazione e manipolazione del consenso, nel suo giocare sul bisogno degli italiani di essere governati. Insomma nel suo presentarsi, anzi essere l’uomo forte. Che purtroppo (ancora purtroppo) piace, vince, governa, e passa come uno schiacciasassi su qualsiasi regola scritta o non scritta che ha governato il nostro Paese per cinquant’anni. Tanto più che dall’altra parte c’è un’opposizione che non c’è. E qui Giannini è tanto duro quanto realistico. L’ultimo capitolo del suo libro è una condivisibile radiografia di tutto quello che (non) ha fatto il Partito democratico per presentarsi all’altezza della situazione. Il quadro che ne esce è desolante, il segretario Veltroni è considerato sostanzialmente incapace di scegliere una linea, oscillante tra il dialogo con lo statista-dittatore e un’opposizione aggressiva ma non credibile proprio perché estemporanea, tirata fuori da un giorno all’altro e solo perché quel dialogo - che fino a poche ore prima veniva sbandierato come l’atout principale – era stato respinto dall’avversario. Anzi dal «principale esponente dello schieramento a noi avverso», come Veltroni ha chiamato Berlusconi in campagna elettorale, definizione che Giannini considera ridicola visto che quell’«esponente» non è un qualsiasi avversario politico ma appunto uno statista che sta sconvolgendo le basi fondamentali della democrazia. Soprattutto, Giannini imputa al leader del Pd la mancanza di un’analisi seria sulla sconfitta elettorale, «dopo otto mesi ancora non l’ha fatta». Si capisce che lui si trova più in sintonia con D’Alema, che almeno quell’analisi l’ha fatta. Ma è consapevole che anche D’Alema ormai ha fatto il suo tempo e non potrà essere una carta giocabile nel futuro. E allora? E allora c’è solo da sperare in un «Obama italiano: io non so se esiste. Ma so che se esiste – conclude sconsolato Giannini – e gli incarogniti e incanutiti notabili non si convincono a cercarlo fin da ora, non lo troveranno mai». Stampa Articolo