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 2008  dicembre 06 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 8 DICEMBRE 2008. «C’è

qualcosa di peggiore della recessione ed è la bancarotta dello Stato, un’ipotesi improbabile ma comunque possibile». «Non possiamo permetterci neanche lontanamente che vada deserta un’asta dei titoli di Stato: non ci sarebbe liquidità per pagare pensioni e stipendi, sarebbe come l’Argentina». Queste frasi, pronunciate mercoledì scorso dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi durante un’intervista di Myrta Merlino per la trasmissione di Raitre Economix, hanno scatenato la reazione dell’opposizione che ha subito accusato il governo di evocare il default (l’impossibilità di pagare i debiti) dello Stato. [1]

Accortosi del clamore suscitato dalle sue dichiarazioni, Sacconi ha diffuso un comunicato per sottolineare che lui voleva dire esattamente il contrario, cioè che, tenendo al primo posto il vincolo del debito, con la manovra anticrisi l’esecutivo ha messo in sicurezza i conti. Enrico Marro: «In una fase dominata dalla paura innescata da una crisi finanziaria mondiale che non si sa bene dove porterà, il solo accennare, sia pure come ipotesi di scuola, al rischio default, anche solo per sostenere che lo si è evitato, contribuisce ad accrescere le paure anziché a placarle». [2]

I titoli di Stato sono diventati da qualche mese il classico bene rifugio delle famiglie italiane. Stefania Tamburello: «Il Bot, dopo anni di ombra, è tornato ad essere, complice la crisi finanziaria, l’approdo dei risparmiatori, secondo solo al conto corrente. Nessuno quindi tra gli operatori e gli esperti teme un ripensamento a breve: a dicembre le aste dei titoli di Stato, dicono, faranno il pienone. E il Tesoro ne approfitterà per mettere in cassa risorse in vista di un inizio 2009 che si prevede più problematico sia perché la crisi economica morderà di più sia perché sui mercati la concorrenza tra titoli e obbligazioni si farà più tesa e si combatterà a suon di tassi e rendimenti». [3]

A differenza di quanto avvenuto negli anni scorsi, quando gli appuntamenti con le aste venivano cancellati dal calendario perché non necessari, questo dicembre è ricco di emissioni. Tamburello: «Il ministro dell’Economia vuole portarsi avanti nella raccolta di fondi per finanziare gli interventi già programmati, primi fra tutti quelli a sostegno del capitale delle banche, con la sottoscrizione di obbligazioni convertibili a riscatto, e a supporto di garanzia delle emissioni degli stessi istituti creditizi. Così tra metà e fine dicembre, la responsabile del debito pubblico, Maria Cannata, ha ”piazzato” un’asta Bot di 3 e 12 mesi (il 10 dicembre) un’asta di Btp a 10 anni (12 dicembre) una di Bot a 6 mesi e di Ctz (29 dicembre) mentre chiuderà il 30 un’asta di Btp a 3 e 10 anni e di Cct a 7 anni: l’intera gamma di titoli». [3]

Le cifre che spaventano il ministro Giulio Tremonti sono due: 2000 e 220. Luca Iezzi: «La prima è la somma, in miliardi di euro, di tutti i titoli di Stato che i governi europei emetteranno nel corso del 2009: si tratterà per lo più di emissioni nuove, necessarie a finanziarie i piani di salvataggio delle banche e di stimolo dell’economia interna. A fare la parte del leone saranno Germania e Inghilterra, entrambe con un rating, un voto di affidabilità, molto superiore a quello dell’Italia (tripla AAA contro A). E qui che entra in gioco il secondo numero, 220 miliardi, la somma dei 160 miliardi di titoli del debito italiano pluriennali in scadenza nel 2009 a cui si aggiungono i Bot con scadenze più brevi e quello che gli analisti si aspettano lo Stato dovrebbe trovare per finanziare il proprio sostegno alle banche nazionali». [4]

Il timore è che nel 2009 l’Italia si trovi a competere in un mercato affollatissimo e per di più con un prodotto meno ”appetibile” dei concorrenti. Iezzi: «I rischi sono due: o non riuscire a ottenere il denaro necessario, come paventato dal ministro Maurizio Sacconi, o dover pagare rendimenti altissimi». [4] «Facendo i calcoli paghiamo un punto in più di Pil rispetto agli altri paesi, circa 15 miliardi l’anno in più, per finanziare il debito» ha spiegato pochi giorni fa Berlusconi. [3] La settimana scorsa il differenziale (spread) fra i rendimenti offerti dall’Italia e quelli dei bund tedeschi ha raggiunto i 140 punti base (l’1,4%), un livello che non veniva toccato dal 1997 (prima dell’avvento dell’euro), appena un anno fa era a quota 60 (0,6). [5]

Il maggior motivo di inquietudine è la fragilità strutturale del debito. Maurizio Ricci: «Nel 1995, il grosso dei titoli di Stato era nelle mani delle famiglie italiane, il ”popolo dei Bot”: il 40 per cento era nelle banche e solo il 10 per cento presso investitori esteri. Nel 2006, secondo gli ultimi dati disponibili del Tesoro, la situazione è completamente rovesciata: solo il 10 per cento dei Bot è in mano a famiglie italiane. Oltre il 30 per cento è nelle banche, il grosso (53 per cento) è, ormai, debito con l’estero. Se, negli anni ”90, una fuga delle famiglie dai Bot era, anche tecnicamente, improbabile, oggi è, almeno, verosimile: banche e investitori esteri hanno molta maggior facilità delle famiglie di dieci anni fa a muovere capitali fra le frontiere». [6]

I segnali che manda il mercato sul debito pubblico italiano sono scoraggianti. Ricci: «Prendiamo, come termometro, i Credit default swaps. I Cds sono contratti in cui, in cambio di una tariffa, una controparte garantisce la restituzione del debito, se il debitore fallisce e smette di pagare. Solo da un mese si è gettata un po’ di luce sulla giungla di questi derivati. E si è scoperto che, all’inizio di novembre, il Cds in assoluto più trattato nel mondo era la protezione contro una bancarotta del governo italiano. Al netto di transazioni ripetute (un Cds viene venduto e rivenduto più volte) gli investitori mondiali avevano in portafoglio Cds legati al debito italiano per 22,7 miliardi di dollari, contro i 16,7 miliardi della Spagna. Seguivano Turchia e Deutsche Bank». [6]

A fine novembre, il volume netto di Cds italiani era diminuito (a 17 miliardi di dollari), ma la protezione contro un default italiano continuava ad essere la più richiesta. Ricci: «Anche se il costo (altro indicatore cruciale delle percezioni del mercato) continua a crescere: ancora a settembre si pagavano 40 mila dollari per garantirsi la restituzione di 10 milioni di dollari di debito italiano. Da allora, il costo è schizzato verso l’alto: oggi, per garantire quegli stessi 10 milioni di dollari, ce ne vogliono 174 mila. possibile che gli investitori esteri non abbandonino l’Italia o che, nel caso, come si augura il ministro del Tesoro, Tremonti, le famiglie, vista la crisi in Borsa, prendano il loro posto nel portafoglio dei Bot. un sentiero stretto: percorrerlo consentirebbe all’Italia di cogliere l’occasione che la crisi del credito fornisce». [6]

«Comprate Bot, Bpt e Cct italiani, sono i migliori del mondo», ha detto giovedì Tremonti durante Porta a Porta. Marcello Zacché: «La questione è semplice. Un’obbligazione (di Stato o meno) è composta di tre elementi: prezzo, rendimento e rischio. Il prezzo è il capitale che noi prestiamo a chi ci vende l’obbligazione. Il rendimento è il tasso d’interesse che noi accettiamo di ricevere a fronte del rischio di non rivedere quel capitale in caso di fallimento del nostro venditore. Dunque qui stiamo parlando di prestare il nostro personale capitale allo Stato-Italia. Il rischio di non riaverlo è uno solo: la bancarotta del Paese». [7]

Essendo il paese con più patrimonio pubblico e più risparmio privato al mondo, l’Italia non rischia la bancarotta. Giacomo Vaciago, docente di Politica economica all’Università cattolica di Milano: «Si potrebbe permettere un debito pubblico anche doppio rispetto a quello che ha. Il paese possiede un immenso patrimonio pubblico, malandato fin che si vuole, ma basterebbe venderne l’ennesima parte per ripagare il debito. Lo Stato ha palazzi, conventi, caserme, immobili di pregio. Senza contare le società, alcune di successo come Eni ed Enel, altre meno come l’Alitalia. Siamo un paese ricco, anche se continuiamo a gettare miliardi dalla finestra». [8]

Il rischio di fallimento dello Stato Italiano non è maggiore di quello della Germania. Zacché: «Berlino ha sì un Pil maggiore del nostro (2.530 miliardi contro 1.580), dei tassi di crescita migliori, e un debito pressoché uguale (ancorché minore rispetto al Pil: 65% contro il 105%). Ma non c’è nessuna ragione per pensare che abbia meno probabilità di fallire. Le sue, come le nostre, e come tutte quelle dei grandi Paesi occidentali, sono vicine allo zero. Eppure sul mercato i titoli di Stato decennali tedeschi a tasso fisso (Bund) rendono poco più del 3%, mentre quelli italiani (Btp) oltre il 4,40% (entrambi al lordo delle imposte)». [8]

Il rischio di cambio non c’è: i titoli pubblici italiani e tedeschi sono entrambi in euro. In altri termini, secondo questa interpretazione, a parità di rischio il Btp nostrano rende 140 punti base (o l’1,4%) più del Bund (non cambia molto se si guarda a scadenze diverse o ai Bot). Zacché: «L’affare potrebbe essere anche più ghiotto: dal momento che il rendimento è il rapporto tra la cedola e il prezzo, in vista di un calo dei tassi chi compra a questi prezzi i Btp che sono già sul mercato, vedrà i rendimenti scendere, e dunque le quotazioni dei propri titoli salire. Il che avverrà, prima o poi, avverrà anche per l’effetto Bund: quando questa irrazionale bufera sarà passata, il titolo italiano tornerà a rendere come quello tedesco. Come? Attraverso la crescita delle sue quotazioni, perché tutti lo cercheranno. E il guadagno, per chi è stato lungimirante, sarà ancora maggiore». [8]

Nella migliore delle ipotesi, fra un anno potremmo scoprire che la montagna del debito pubblico ci è costata addirittura meno (anche molto meno) del solito. Ricci: « Angelo Baglioni e Luca Colombo hanno calcolato, per Lavoce. info, che la riduzione dei tassi avviata dalle banche centrali consentirebbe all’Italia di risparmiare quasi 4 miliardi di euro in interessi sul debito pubblico. Lo spread con il Bund, infatti, è aumentato, ma, in termini assoluti, l’interesse pagato sui Bot italiani è sceso, anche se meno di quello tedesco. Il calcolo è stato fatto prima dell’ultimo taglio di 0,75 punti della Bce. Il risparmio sull’onere per interessi, nel 2009, potrebbe essere, ora, di 5-6 miliardi di euro. Naturalmente, se il Tesoro non sarà costretto ad inseguire gli investitori con rendimenti più alti, invece che più bassi». [6]