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 2008  dicembre 06 Sabato calendario

Ha ancor vita una corrente, che potremmo chiamar barilliana, la quale sostiene che i rapporti di Verdi con l’Opéra di Parigi imbalsamano la sua invenzione, o meglio l’avvincono in una serie di obblighi tradizionali che la rendono meno autentica e sovente pompière

Ha ancor vita una corrente, che potremmo chiamar barilliana, la quale sostiene che i rapporti di Verdi con l’Opéra di Parigi imbalsamano la sua invenzione, o meglio l’avvincono in una serie di obblighi tradizionali che la rendono meno autentica e sovente pompière. La testa di turco sulla quale tutti sparano è Giacomo Meyerbeer, fondatore del grand-Opéra ma musicista di tale genio che, per esempio, Il crociato in Egitto, scritto nel 1824 per La Fenice di Venezia in uno stile spesso influenzato da Rossini, è più bello di qualsiasi Opera Seria, italiana o francese, del sommo «cignale di Lugo», come egli soleva definirsi. Su di un punto la citata tesi ha fuor di dubbio ragione, e tocca anche Opere non scritte espressamente per l’Opéra ma adattate per la versione francese: e cioè che i Balletti scritti da Verdi sono di una bruttezza speciale. Come potrebb’essere diversamente? Verdi è pura sintesi, l’azione da lui stretta con lacci ferrei deve interrompersi anche di mezz’ora, e l’eleganza mondana e un po’ perversa con che Meyerbeer e il Wagner del Rienzi adempivano l’obbligo gli era lontanissima: tant’è che i Patineurs del Profeta di Meyerbeer gli facevano ammirazione e invidia. Ma gli orridi Balletti del Trovatore si posson sempre tagliare anche se la perversione del gusto vuole eseguirlo in francese come Le Trouvère; e gli altrettanto odiosi del Don Carlos si debbono sempre espungere quand’anche ci venga inflitta la prima versione francese in cinque atti. Un’altra perversione, quella dell’intelletto oltre che del gusto, crea una versione anteprima, recuperando le parti tagliate dal Maestro stesso nel 1866, ossia mentre scriveva l’Opera. Può immaginarsi, in poesia, se noi ripristinassimo da un Canto del Leopardi luoghi furiosamente cancellati del manoscritto ovvero componessimo un pastiche combinando a nostro arbitrio parti della Gerusalemme Liberata con parti della Conquistata? Mi sono già inoltrato nell’argomento più delicato di tutta la storia di quest’Opera, mentre conviene tornare al punto di partenza. Per l’Opéra Verdi, come Wagner, nutriva giustissima antipatia, ma non vale il presumere che un fastidio per la macchinosità delle prove, la rigidità dei regolamenti e l’obbligo dei Balletti mettessero capo a un risultato artistico inferiore alla media di Verdi o addirittura poco valido. Pensate ai Lombardi alla prima Crociata e a certe sue pagine di stravagante bruttezza, e paragonate quest’Opera alla sua cosiddetta «versione francese», la Jérusalem (1847): trattasi in realtà d’un’Opera a sé, d’una notevolissima finezza di scrittura e d’una cocente temperatura emotiva, che va considerata fra i capolavori assoluti di Verdi. Altro caso lampante è quello delle Vêpres Siciliennes, le quali pure sono tra i risultati più alti che Verdi abbia attinti, quand’anche, a differenza della Jérusalem, «suoni» assai meglio in italiano che in francese, la pronuncia nasale della lingua ostando al dispiegarsi di lunghe e frementi melodie. E adesso ci troviamo di fronte al caso del Don Carlos, la più ambiziosa e monumentale di tutte le Opere di Verdi (nasce in realtà come un grand-Opéra). Essa sussiste in cinque versioni differenti, a non considerare quella definita «anteprima»: la prima in cinque atti poi, negli anni in altre che attraversano una sorta di furia di sintetizzare od omettere da parte di Verdi ch’esprime nell’Epistolario il piacere che prova in tale processo. La versione più riuscita è la penultima (Milano, 1884), quasi sempre adottata per quest’Opera cupa, sottile, difficile, che se n’era, dopo la morte del Maestro, uscita di repertorio. «In quattro atti e senza la s!», diceva Verdi stesso. L’ultima (Modena, 1886) è insieme un conato di sintesi e di recupero del I atto francese, ma non è soddisfacente come quella del 1884. Quale di esse scegliere? La risposta naturale è la quarta, quella adottata dai più grandi direttori che il Don Carlo abbiano diretto, Gabriele Santini e Antonino Votto, con compagnie strepitose e preparate a fondo come oggi non se ne trovano. Lecito di certo è eseguire la versione in cinque atti, perché una volta bisogna pur ascoltarla, e di ciò siamo molto grati al m˚ Claudio Abbado. Ma la quarta procede come un’Opera diversa dalla prima anche per la sintesi drammatica e psicologica raggiunta: quella psicologica, che va da esplosioni d’odio o terrore o dolore a certe mezze tinte rarissime nella produzione di Verdi. E poi perché particolari sempre più perfezionati di armonia e strumentazione la rendono una partitura ben orchestrata come poche, e le armonie, nella loro eleganza o semplicità classica affiancata a geniali modulazioni, note isolate del clarone nel silenzio orchestrale, gementi melodie dell’oboe di espressione quasi pantomimica, non fosse per la raffinatezza, l’uso dei quattro fagotti soli o combinati coi quattro corni o altro, rendono una gioia lo studio di essa. Vorrei fare un esempio che credo non sia stato notato da nessuno: all’inizio del I atto il coro salmodia «Carlo, il sommo Imperatore» sopra un accordo di Fa diesis minore che sulla sillaba to, elevato il La a La diesis, diviene di Fa diesis maggiore. Sul secondo movimento della battuta (una semiminima dopo to) si ode un rintocco di una parte degli strumenti a fiato che, largamente spaziato dal Fa diesis acuto dell’ottavino al Fa diesis grave del IV corno provoca un brivido per il vuoto armonico creantesi al centro. Ciò è molto bello, ma dimostra anche quanto Verdi studiasse e rendesse omaggio a musicisti dei quali magari parlava malissimo. Siamo all’Agnus Dei della Grande Messe des Morts (1838) di Berlioz. I tenori e i bassi salmodiano in Sol maggiore «Agnus dei, qui tollis peccata mundi»: sul mu l’accordo diviene di... Fa diesis maggiore. E lì quattro flauti emettono l’accordo di Fa diesis maggiore che suona a siderale distanza rispetto agli otto tromboni col loro Fa diesis basso. In Berlioz è evidente il figuralismo musicale come la radicalità dei mezzi impiegati: quel vuoto immenso tra l’acutissimo e il gravissimo che la scuola di Vincent d’Indy gl’imputava come creux harmonique e simboleggia la distanza estrema fra noi e l’Agnello di Dio; in Verdi è un fatto di pura atmosfera. Si direbbe, considerate le diverse personalità, che i due Maestri si fossero scambiati il ruolo; resta il fatto che Berlioz inventa trentott’anni prima. Stucchevole sarebbe a questo punto indicare i luoghi topici di così notevole partitura. Basti ricordare che l’Autore considerava Filippo II e la principessa d’Eboli i personaggi più importanti. Desidero con l’occasione disdirmi intorno a un punto: a lungo ho considerato la scena di massa dell’auto da fè come musica cafona su ritmo di ballabile in uno sfolgorante Mi maggiore: una matura riflessione mi ha fatto comprendere che in Ispagna come nel nostro Mezzogiorno le esecuzioni pubbliche rappresentano la festa popolare per eccellenza; risalendo indietro nel tempo, si può dire in tutto il mondo. Non riesco invece ancora a trovare una ratio che giustifichi la rovina d’uno dei punti più appassionanti dell’Opera. Il IV atto si apre con un preludio sinfonico tematico che strappa le lagrime – guarda caso, ancora in Fa diesis minore – e dopo di esso s’erge, disperata e nobilmente scolpita, la voce di Elisabetta: «Tu che le vanità conoscesti del mondo e godi nell’avel il riposo profondo ». Come ha potuto Verdi, sul periodo successivo, trapassare senza modulazioni, ma con brutale procedimento in fatto, al Fa diesis maggiore per enunciare quello che i vecchi maestri di composizione chiamavano il «tema lirico» («S’ancor si piange in cielo»)? La cortesia del m˚Daniele Gatti ha permesso che io esaminassi l’edizione da lui adottata per la Scala. Egli ha «riaperto » tagli di tradizione ma ha inserito anche una pagina eliminata da Verdi prima della première del 1867, ossia cancellata per sempre: 58 misure di compianto sul duca di Posa pronunciate da Filippo che lo ha appena fatto assassinare. La meravigliosa trenodia è ora al suo posto definitivo: l’Autore la trasformò nel Lachrimosa della Messa da Requiem. Ame pare una mancanza di rispetto d’una definitiva volontà di Verdi che conosceva il valore della pagina ma che per motivi intrinsecamente drammatici la tenne in caldo fino a trovare ove trasporla. Così sembra un Lachrimosa retroattivo. Sanchez Coelho, «Don Carlos», Kunsthistorisches, Vienna. Negli ovali: Tiziano, «Filippo II» e Sofonisba Anguissola, «Isabel de Valois» (part.) La morte di Rodrigo dal IV atto di «Don Carlo» alla Scala. Qui sopra due bozzetti di Giovanni Zuccarelli per la storica messa in scena del 1884