Jacopo Iacoboni, La Stampa 5/12/2008, 5 dicembre 2008
Fu Vittorio, coi suoi argomenti, a determinare il mio primo allontanamento dalla sinistra nel 1985, ai tempi del referendum sulla scala mobile
Fu Vittorio, coi suoi argomenti, a determinare il mio primo allontanamento dalla sinistra nel 1985, ai tempi del referendum sulla scala mobile. stato anche per il dialogo, intenso e ininterrotto, con mio padre, che lasciai il mondo nel quale m’ero formato, il Pci, e iniziai il cammino che mi ha portato a pensare ciò che penso oggi». passato un mese e mezzo dalla morte di Vittorio Foa, e Renzo per la prima volta accetta di parlare del rapporto con suo padre. Un rapporto segnato da una continua interrogazione sul significato di due concetti, «sinistra», innanzitutto, e poi «destra», che quasi in un’inversione delle parti padre e figlio si sono scambiati nel corso degli ultimi venticinque anni, influenzandosi probabilmente a vicenda, sostiene Renzo: «So almeno che lui mi convinse in una circostanza molto importante». Renzo sta per mandare in libreria un saggio di quaranta pagine intitolato Un padre che chiamavo Vittorio (Liberal edizioni). Qui fa i conti senza infingimenti con l’eredità paterna, rivelando: è grazie a Vittorio se ho lasciato la sinistra. un singolare «sodalizio», tra i due, cominciato forse nell’83, quando «in una trattoria lungo il Tevere io e Adornato cenammo con lui per raccogliere l’intervista che uscì sull’Unità e in cui annunciò che voleva ricominciare a far politica». Seduti a un altro tavolo c’erano Giancarlo Pajetta e Miriam Mafai, e Pajetta li guardava con la diffidenza di chi sa che l’avvicinamento di quel vecchio sindacalista - transitato dal Psiup, dal manifesto, dal Pdup - a quei due promettenti funzionari del Pci avrebbe prodotto il bacillo pericoloso della «contaminazione culturale». Ma è l’85 l’anno che segna la prima svolta di Renzo. Come andò, lo racconta ora conversando disteso. Il partito comunista promuove il referendum contro il taglio di quattro punti di scala mobile attuato dal governo di Bettino Craxi. «Vittorio era allora a capo dell’Ires, il centro studi della Cgil, eppure fu contrarissimo all’iniziativa del Pci. Mi parlava dell’arretratezza culturale di un partito che si era impegnato su una trincea conservatrice, che non aveva capito che il mondo del lavoro stava vivendo il decennio ottanta come una fase di profonda trasformazione. Per cui quattro punti di scala mobile non solo non incidevano per nulla sul salario, ma non erano neanche più un simbolo di fronte ai nuovi consumi e ai nuovi orizzonti che si erano aperti. Furono argomenti in più che mi convinsero definitivamente che la crisi di quella sinistra stava diventando irreversibile». Argomenti che tenne «a futura memoria». solo l’inizio di un percorso che porterà Renzo, quindici anni dopo, a scrivere i suoi commenti sul Giornale. Ma fu allora che si accorse che Vittorio, «da una critica ”di sinistra” al partito nel quale militavo, era passato a una contestazione moderata, oggi si direbbe riformista. Era un’altra persona». la prima delle inversioni che si ripeteranno almeno altre due volte. Nel 1990-91 è Vittorio a collocarsi a destra del figlio, favorevole all’intervento di Bush padre contro Saddam. «Del resto, mi diceva, anche Norberto Bobbio aveva scritto della ”guerra giusta”». «Ma io - ricorda Renzo - allora non riuscii a sfuggire alla morsa di un vero e proprio vincolo di partito». Era, in quella fase, caporedattore dell’Unità diretta da Macaluso: «Emanuele al tempo della scala mobile non mi era sembrato tra i più convinti sostenitori del referendum. Ma io, e penso anche lui, stavamo nei panni che ci erano toccati...». Le inversioni non sono finite. «Vittorio nel ”91 decise di iscriversi al Pds, all’indomani del clamoroso incidente di Occhetto, non eletto segretario del partito appena nato. Lo fece quasi per dare un incoraggiamento, ma in quel momento cominciammo a muoverci in direzioni opposte». Stavolta, Renzo alla destra di Vittorio. Un episodio simbolo è nel 2003: «Vittorio era diventato scettico sull’uso della guerra, di nuovo, contro il tiranno. Io la sostenni, ma proprio perché avevo fatto miei i suoi insegnamenti di tredici anni prima!». La figura di Silvio Berlusconi aleggia nell’ultima fase. Ricorda Renzo: «No, litigi non ne avemmo mai. Avevamo però un tacito patto: cambiavamo discorso quando sentivamo il rischio che il confronto scivolasse su una china non tanto di litigio, ma di reciproca incomprensione». Sostiene Renzo che «Vittorio non fu mai ossessionato dall’antiberlusconismo; in pubblico si è sempre attenuto alla sua posizione di padre nobile che gli era stata affibbiata, ma alla quale guardava con certa ironia; in privato però coglievi una sua inquietudine. Tra la fine del ”99 e il duemila mi diceva ”è così noioso parlare di sinistra, ormai non c’è più, parliamo di destra, dimmi, come sta cambiando la destra?”, mi chiedeva. La mia svolta non lo scandalizzava. Neanche il fatto che scrivessi sul Giornale; quando comparve il primo articolo non mi disse nulla, l’unico commento lo fece in un’intervista al Messaggero in cui diceva più o meno ”sono felice di avere un figlio che pensa con la sua testa”... Però si è sempre rifiutato di comprarlo, Il Giornale, i miei articoli li leggeva quando gli amici glieli segnalavano». Naturalmente, «a volte perdeva le staffe per le gaffe di Berlusconi. In quelle lunghe chiacchierate - che avevamo la mattina al bar all’angolo tra il Tritone e la Galleria, vicino all’edicola di fronte al Messaggero dove lui scendeva a comprare i quotidiani, o sotto gli aranci della casa di Sesa a Formia - non ho mai nominato Previti, sapevo che s’infuriava. S’indignava per la riforma della giustizia, mi chiedeva il perché di certi stili di vita, diceva ”ti ricordi la casa dei deputati di via Colombo dove abitavamo?”. Lo capivo, ma era tutta l’Italia a esser cambiata. Eppure era interessato a certe figure della destra, come Fini, di cui apprezzò la svolta di Fiuggi. Mi chiedeva continuamente ”cosa pensa Gianni Letta?”, confidava che potesse esprimere una visione di destra liberale di cui non reputava capace Berlusconi. Obiettava sulla caratura europea della Casa delle libertà; sulla presenza della Lega nell’alleanza. Mi diceva ”caro Renzo, su Berlusconi vi sbagliate, vedrete”. Aveva ragione lui». E così, alla fine, il figlio ha come riacchiappato il padre.