Massimo Gaggi, Corriere della Sera 5/12/2008, 5 dicembre 2008
NEW YORK
Il dramma dell’industria Usa dell’auto è ormai al suo epilogo. Arrivati da Detroit – stavolta in auto e col capo «cosparso di cenere » – Rick Wagoner, Alan Mulally e Bob Nardelli, i capi di General Motors, Ford e Chrysler, si sono ripresentati ieri davanti al Parlamento di Washington ammettendo i loro errori, presentando nuovi piani di ristrutturazione e promettendo tagli a raffica di spese, impianti sottoutilizzati, organici in esubero e stipendi dei manager.
Pur di ottenere i finanziamenti pubblici senza i quali non possono più sopravvivere, i tre manager si sono anche detti pronti ad accettare la supervisione di un organismo politico-burocratico: una commissione federale di sorveglianza. Ed hanno spiegato che, senza un’iniezione immediata di capitali, GM e Chrysler falliranno entro le prossime quattro settimane.
A questo punto la maggioranza democratica del Congresso è pronta ad aiutare il settore dando via libera al finanziamento straordinario di 34 miliardi chiesto dalle società semplicemente per sopravvivere fino a febbraio. Ma le Camere non hanno lo strumento giuridico necessario per attivare rapidamente un simile intervento. Il ministro del Tesoro Paulson ha già escluso da tempo la possibilità di aprire all’auto il fondo di salvataggio del sistema bancario. Ieri il Congresso ha bussato alla porta della Federal Reserve, che nelle settimane scorse è già andata al di là dei suoi confini istituzionali salvando Aig: non una banca ma un gruppo assicurativo.
Da Ben Bernanke è, però, venuto un rifiuto secco: la Fed non presterà soldi direttamente all’industria dell’auto. L’istituto di emissione spiega che, anche laddove è intervenuto in situazioni di emergenza (come nel caso di Aig, appunto) lo ha fatto ottenendo garanzie patrimoniali a fronte dei suoi finanziamenti. Ma le Case di Detroit – dice la Banca centrale – non sono in grado di fornire le garanzie reali richieste dalla legge.
Finita l’audizione fiume, ieri sera i leader parlamentari si sono rimessi al lavoro alla ricerca di una via d’uscita. Sono ripresi i contratti col Tesoro e la Casa Bianca. Anche se Bush si è più volte espresso contro il salvataggio dell’auto, Paulson di recente è parso più possibi-lista: lo preoccupano le conseguenze economiche e occupazionali del crollo di un altro pezzo del sistema produttivo Usa.
Si spera, insomma, ancora in una scappatoia. In fondo otto mesi fa Bear Stearns fu salvata da Tesoro e Fed aggirando la legge: non un intervento diretto ma attraverso l’«intercapedine» di una banca commerciale, la Jp Morgan Chase. C’è, però, da superare anche la forte resistenza dei parlamentari repubblicani, convinti che quei 34 miliardi siano solo il primo di una lunga serie di stanziamenti. La sola General Motors sta «bruciando» 4 miliardi di dollari al mese e non si vede, con la congiuntura economica che continua a peggiorare, cosa potrebbe cambiare in meglio nei prossimi mesi. E poi, in fila dietro i tre costruttori, ci sono già le altre imprese che ruotano attorno al «business» dell’auto: dall’industria della componentistica alle società di rent e leasing. Tutte in crisi, tutte col cappello in mano.
Sentito anche lui dal Congresso, il capoeconomista di Moody’sEconomy.com, Mark Zandi, ha detto che lasciar andare in bancarotta le Case di Detroit sarebbe un errore, ma ha aggiunto che, effettivamente, i 34 miliardi chiesti ieri sono solo un «antipasto»: il conto finale del salvataggio del settore oscillerà tra i 75 e i 125 miliardi di dollari.
Richard Wagoner
Massimo Gaggi