Alkberto Quadrio Curzio, Corriere della Sera 5/12/2008, 5 dicembre 2008
Mentre prosegue la crisi economica, di origine americana e con ricadute gravi su tutto il mondo, Europa compresa, in Italia ci si interroga su almeno due questioni: come può il nostro Paese contenere la crisi? La Ue, di cui siamo Paese fondatore e membro, sta facendo tutto il possibile? Sono due domande impegnative alle quali tentiamo di dare alcune risposte senza la pretesa di dire a chi governa il da farsi
Mentre prosegue la crisi economica, di origine americana e con ricadute gravi su tutto il mondo, Europa compresa, in Italia ci si interroga su almeno due questioni: come può il nostro Paese contenere la crisi? La Ue, di cui siamo Paese fondatore e membro, sta facendo tutto il possibile? Sono due domande impegnative alle quali tentiamo di dare alcune risposte senza la pretesa di dire a chi governa il da farsi. L’Italia si trova in una situazione per certi versi paradossale. E’ il Paese industriale che ha avuto meno contraccolpi dalla crisi ed è il Paese che corre in prospettiva più rischi. Abbiamo avuto meno contraccolpi per almeno tre ragioni: perché il nostro sistema bancario, in grande prevalenza ben radicato sul territorio e poco incline a funambolismi globali, ha sempre avuto una ottima base di risparmio interno, frutto della tradizionale parsimonia degli italiani, per alimentare la concessione dei crediti; perché le famiglie italiane sono poco indebitate e perché una stragrande maggioranza possiede una abitazione mentre quelle che hanno mutui li hanno ricevuti sulla base di criteri prudenziali, per loro e per le banche; perché il tessuto di coesione economico-sociale delle piccole e medie imprese, dei distretti e dei sistemi locali di produzione, della imprenditorialità innovativa diffusa ci ha dato dei formidabili surplus di commercio estero nel manifatturiero tipico del made in Italy, che molti tuttora sottovalutano. Così come pochi ricordano che l’economia italiana è l’unica in Europa ad essere seconda nel manifatturiero (dopo la Germania), nella agricoltura (dopo la Francia) e nel turismo (dopo la Spagna) e quindi in media più bilanciata di ciascuna di queste economie. Non da ultimo il tessuto delle medie città italiane costituisce un importante reticolo di coesione e di solidarietà comunale. Sappiamo che non pochi reputano arretrato questo sistema, ma noi crediamo che lo stesso sia valido, per la sua connotazione di sussidiarietà, anche se suscettibile di molti miglioramenti. Siamo però il Paese che corre più rischi rispetto ad altri Paesi industrializzati, e soprattutto Europei, a causa del nostro gigantesco debito pubblico che ogni giorno viene valutato dai mercati dando un prezzo e un rendimento ai titoli di Stato. Il fatto che negli ultimi mesi si sia allargato il divario nei tassi tra i nostri titoli e quelli tedeschi significa che il mercato reputa i nostri più rischiosi e quindi chiede un premio. Ciò comporta in prospettiva un costo relativo maggiore per l’Erario che deve pagare gli interessi. La Germania e la Francia, con un debito pubblico sul Pil tuttora intorno al 65%, possono fare, in questo momento di crisi, molta più spesa pubblica di noi che abbiamo un rapporto quasi al 105%, a causa di una lunga storia di sprechi non ancora emendati. E’ ben vero che il nostro debito privato sul Pil è più basso di quello dei nostri omologhi transalpini e questo ci dà una certa solidità che però non è valutata dai mercati finanziari. Il nostro Paese ha anche altri problemi tra cui il sommerso, il deficit energetico, la pesantezza burocratica e il Sud che non decolla pur essendo un grande giacimento di risorse intellettuali e artistico-naturali. Tutto ciò rende la nostra crescita più debole. La soluzione di questi problemi richiede tempo ed è certo che noi ce ne stiamo mettendo troppo. Ma in questo momento non crediamo ci sia alternativa ad un’azione di politica economica che, senza peggiorare il debito pubblico, cerchi di combinare solidarietà e sviluppo. Qualcuno dirà che con i «rammendi» non si va lontano. Forse. Ma si potrebbe rispondere che l’Italia ha un abito fatto di stoffa robusta sia pure con vari buchi che in parte sono già stati chiusi negli ultimi 15 anni, ma su cui bisogna continuare l’opera di sartoria, anche con «sostituzioni nette». Per esempio, dal recupero fiscale e civile del gigantesco sommerso e dai tanti rivoli di spesa pubblica improduttiva si potrebbero trarre risorse per finalità specifiche come gli investimenti in infrastrutture civili, energetiche (produttive e di risparmio), tecno-scientifiche. E veniamo, brevemente, alla Ue, che pure soffre di un dualismo. Da un lato, la Euro-economia, componente forte di una Euro-democrazia ancora in fase di consolidamento, ha dei fondamentali buoni (migliori di quelli USA) e per ora ha arginato la crisi abbastanza bene con un metodo intergovernativo guidato dalla personalità forte di Nicolas Sarkozy, presidente del Consiglio Europeo fino a fine 2008. Da un altro lato, vi è stato nella crisi un indebolimento del metodo comunitario che potrebbe ulteriormente attenuarsi nel 2009 quando alla Presidenza del Consiglio Europeo ci saranno in successione due Paesi di stazza piccolo- media: prima la euroscettica Repubblica Ceca e poi la Svezia. Speriamo perciò che vadano in porto le ratifiche del Trattato di Riforma e un sostanzioso rinnovo della Commissione europea. Noi, come altri, sosteniamo che la Ue può fare di più unita. Per questo riteniamo che bisogna insistere per varare un Fondo finanziato da titoli di debito pubblico europeo. Così come, fermo restando che la Bce è autonoma e deve esserlo, è importante che riduca rapidamente i tassi al 2%, proseguendo nella linea intrapresa ieri. Infine in una ottica europeista, gli italiani che contano nelle Istituzioni della Ue debbono impegnarsi in tali direzioni, mentre quelli che operano all’interno del nostro Paese dovrebbero privilegiare la responsabilità repubblicana.