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 2008  dicembre 04 Giovedì calendario

Una metamorfosi profonda e veloce ha colpito il linguaggio del presidente Karzai, che ormai mostra guizzi di autentica insubordinazione verso i protettori e i consiglieri occidentali

Una metamorfosi profonda e veloce ha colpito il linguaggio del presidente Karzai, che ormai mostra guizzi di autentica insubordinazione verso i protettori e i consiglieri occidentali. Le sue parole degli ultimi mesi segnano una frattura con anni di dichiarazioni prudenti, scontate, genericamente ottimiste. L’uomo che vive assediato nell’ex palazzo reale di Kabul, e il cui potere svanisce oltre il perimetro cittadino come quello di un sindaco, sembra avere trovato un orgoglio patriottico che gli era sconosciuto. Ha abbandonato, almeno a voce, la soggezione verso gli stranieri che lo sostengono. Lo sostengono politicamente, ma nello stesso tempo lo controllano, frenano le sue decisioni, senza informarlo delle loro iniziative. Anche lui rientra tra gli abitanti politicamente sfrattati. Gli alleati si sono installati nel cuore della capitale, in una cittadella murata con alte barriere di cemento, dove gli afghani non possono entrare. Karzai ha detto che la presenza straniera ormai ha creato nel Paese un governo parallelo, che interferisce, che si sovrappone alle autorità locali. Ma qualche settimana prima il presidente - impegnato in una trattativa con il mullah Omar e pronto a garantirgli l’incolumità - aveva annunciato apertamente: se gli occidentali sono contrari a questa garanzia per i taleban moderati, allora devono rimuovere me o ritirare le loro truppe dall’Afghanistan. L’inizio della rivolta verbale risale esattamente al 21 agosto scorso, quando un attacco aereo americano al villaggio di Azizabad aveva ucciso quasi cento persone, tra cui una sessantina di ragazzini e quindici donne. In sette anni di guerra, dopo la caduta dei taleban, è stato il bombardamento più sanguinoso delle forze straniere contro civili inermi. Per l’occasione Time andava oltre la solita formula dei danni collaterali e parlava di «tragedie collaterali». Nonostante le denunce delle autorità afghane, e i numerosi dettagli raccolti da una commissione Onu, gli ufficiali occidentali hanno impiegato quasi due mesi per aggiornare il loro primo bilancio, che riduceva sbrigativamente le vittime a una ventina di guerriglieri. Dopo Azizabad il Presidente e i suoi consiglieri hanno mostrato un’insofferenza crescente verso la strategia della guerra aerea, dei bombardamenti indiscriminati condotti dalla carlinga di un velivolo, oppure utilizzando un drone senza pilota, per colpire con troppa frequenza bersagli sbagliati. Più i militari stranieri si affidano ai bombardieri e agli elicotteri corazzati, tenendosi lontani dallo scontro diretto, dal combattimento sul terreno, più eccitano la mentalità guerriera degli afghani, che li considerano soldati ipertecnologici, abituati al comfort delle loro guarnigioni, ma senza coraggio. Karzai ha detto subito ad Obama: «La guerra al terrorismo non può essere vinta bombardando i nostri villaggi». Qualcosa di molto simile hanno detto i vertici militari pachistani al generale americano Petreus, spiegandogli che gli attacchi aerei nelle zone tribali al confine afghano creano offesa turbolenza, tra le popolazioni locali, e in conclusione non sono efficaci contro i taleban. L’Afghanistan è stata la premessa della guerra in Iraq. La spedizione in Mesopotamia iniziò con un pretesto, un inganno, un’autentica menzogna di Stato: il dittatore Saddam possedeva armi di distruzione di massa. Quegli armamenti non sono mai stati trovati, anche se il generale Wafiq Samarrai, capo dei servizi segreti iracheni, dopo la sua diserzione aveva rivelato alla Cia che le testate per la guerra chimica, i missili capaci di trasportarle, e il carburante necessario a quegli ordigni, componevano ormai solo un arsenale piccolo e malandato. Un inganno meno roboante, ma più ostinato, serpeggia da qualche anno nelle retrovie del fronte afghano, e inquina tutto lo scenario politico. Da quando appunto i generali della Nato ripetono che i bombardieri in Afghanistan servono per la ricognizione aerea. Così balbettava un diplomatico a Bruxelles nell’estate 2006. Non si conosce il numero delle foto scattate quell’anno, ma tra giugno e novembre ci furono più di duemila missioni di bombardamento. L’anno successivo le missioni aumentarono. Karzai non è solo nella sua irritata sfiducia. Il rappresentante dell’Unione europea, dopo otto anni in Afghanistan, al momento di partire ha detto che dopo il 2001 questo è l’anno peggiore. L’ambasciatore inglese a Kabul ha scritto che l’impresa afgana è destinata al fallimento. Il capo di stato maggiore americano prevede solo un peggioramento della situazione. Il generale tedesco capo delle truppe d’élite ha parlato di un miserabile fallimento. E oltre due terzi dei soldati inglesi dislocati in quel Paese pensano che bisogna tornare a casa, secondo un sondaggio della Bbc. L’insurrezione linguistica di Karzai ormai è un fenomeno trasversale.