Massimo Gramellini, La Stampa 4/12/2008, 4 dicembre 2008
Scrivo da un letto di dolore che troppo di dolore non è. Insomma, ho l’influenza come milioni di italiani e cerco di godermela fino in fondo
Scrivo da un letto di dolore che troppo di dolore non è. Insomma, ho l’influenza come milioni di italiani e cerco di godermela fino in fondo. Mi barrico con la testa sotto le lenzuola come da piccolo, quando immaginavo che il letto fosse un sottomarino. Poi guardo fuori, ma non mi pare di perdermi un granché. Le Borse borseggiano e i terroristi terrorizzano, quasi quanto gli economisti, i quali assicurano che il 2009 sarà peggio del 2008 ma uno scherzo rispetto al 2010. La febbre è una compagna preziosa. Ti libera dallo stress e dalle scocciature. E ti consegna a quello stato di ottundimento che è la condizione ideale per concentrarti sul linguaggio silenzioso del corpo, mediatore indispensabile per raggiungere la parte più inesplorata di se stessi. Il mal di testa ti impedisce di leggere, il mal di gola di telefonare. Resta la televisione, da guardare a occhi chiusi, appisolandoti di continuo. E ogni volta, sempre la stessa scoperta: il mondo va avanti senza di te. Straziato dalla tua assenza, ma in qualche modo ce la fa. La commissione urgente si rivela rinviabile. L’appuntamento da non perdere, perdibilissimo. E il tarlo affettivo o professionale che ti teneva sveglio la notte svanisce al cospetto di una fitta alla schiena. Sei ai box a fare il pieno, a cambiare le gomme. E, se ci riesci, a dare un’occhiata al motore. Mi piace pensare che la crisi assomigli all’influenza: uno stato di malessere che prelude a un benessere meno isterico e più consapevole. Ma non datemi retta: mica sono un economista, anche se il mio delirio almeno ha l’alibi della febbre.