Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 3/12/2008, 3 dicembre 2008
Il grande Seymour Hersh, per avere denunciato lo spaventoso massacro di My Lai commesso dagli americani in Vietnam e poi le torture americane sui prigionieri ad Abu Graib, ha vinto il Pulitzer ed è considerato da tutti, tolti rari esaltati, un grande patriota americano
Il grande Seymour Hersh, per avere denunciato lo spaventoso massacro di My Lai commesso dagli americani in Vietnam e poi le torture americane sui prigionieri ad Abu Graib, ha vinto il Pulitzer ed è considerato da tutti, tolti rari esaltati, un grande patriota americano. Proprio chi ama davvero la sua patria ha il dovere di denunciarne gli errori e, talora, gli orrori. Da noi no, non è così. In un Paese in cui ognuno ha sempre raccontato la «propria» storia (con retorica savoiarda, retorica fascista, retorica comunista...) e Berlusconi dice di aver difeso con Gheddafi la nostra occupazione in Libia («gli ho detto che Balbo ha fatto cose egregie»), un grande storico come Angelo Del Boca non ha avuto fino in fondo quanto meritava. Forse nessuno come lui, infatti, ha avuto il coraggio patriottico di tentare di ricostruire certi pezzi della nostra storia che erano stati «ritoccati», «aggiustati» e stravolti a uso e consumo di «verità» di comodo. «Verità» che lui ha smontato pezzo per pezzo. Soprattutto sul nostro colonialismo, spacciato per decenni (e non solo dai fascisti) come un «colonialismo buono». Per questo va letto «Il mio Novecento», l’ultimo dei libri scritti da Del Boca spaziando dai romanzi (elogiati da Pavese e Vittorini) ai reportage, dalla memorialistica ai saggi di storia. Perché non è solo un bel libro grondante di storie irresistibili. Ma perché, col continuo passaggio dalle cronache dei grandi eventi planetari agli aneddoti, agli odori, ai personaggi della vita privata (il mito di don Gaudenzio alto due metri che tornava dalle scalate alpine con le tasche piene di minerali, il lavoro alla Gazzetta del Popolo, il rapporto tenerissimo con la moglie Maria Teresa colpita dalla meningite...) spiega qual è la spina dorsale del grande giornalista. La capacità di tenere insieme tante cose, impedendo all’accavallarsi degli eventi quotidiani di spazzare via tutto il resto, mogli, figli, fratelli. Il rifiuto di vedere il lavoro come un mestiere cinico per «orfani, scapoli e bastardi». Il fegato. La voglia di emozionarsi, come gli capitò visitando il lazzaretto nella foresta di Albert Schweitzer che curava lebbrosi e dava da mangiare alle antilopi. Il gusto di raccontare storie come la vita fiabesca alla lussuosa corte del kantibà Nasibù Zamanuel ad Addis Abeba. La curiosità di conoscere posti, popoli, uomini orribili, eccentrici o affascinanti come il premier del Kerala Nambudiripad, bramino e comunista. Su tutto, però, spicca dalle memorie la cocciuta volontà di non dare mai niente per scontato. Di non partire mai con una tesi prestampata. Di non farsi bastare la versione ufficiale. Di scavare, scavare, scavare. Fino a scoprire quelle verità ustionanti che lui per primo ha dimostrato. Come quella che il colonialismo italiano è stato segnato sì dal sacrificio di tanti soldati, funzionari e coloni di cui andare fieri. Ma anche dalla ferocia di macellai come Rodolfo Graziani, che col via libera di Mussolini non si fece scrupolo di sterminare anche i civili, donne e bambini, coi gas e i bombardamenti chimici. Verità scomodissime. Dolorose. Rivelate non tanto per il prurito di uno scoop ma per rispetto della vita. E di un mestiere che ha un senso solo se ha radici morali.