Vari, 3 dicembre 2008
MILANO
Il ritratto, custodito al Museo del Prado, ce lo mostra avvolto nel manto nero bordato di pelliccia. Un ragazzo pallido, ombroso, lo sguardo perso nel vuoto. Bello non era proprio Don Carlos, principe delle Asturie. Per di più era storpio (in seguito a una caduta nel maldestro tentativo di inseguire una cameriera) e di pessimo carattere. A 9 anni pare che già molestasse le compagne di gioco e una volta tentò pure di buttare dalla finestra il suo confessore. Insomma un tipo da cui girare alla larga.
Ci volevano Schiller e Verdi per trasformare quel bel tomo nell’eroe romantico, pieno di slanci amorosi e furori sovversivi, che dà il titolo all’opera che domenica alle 18 aprirà la stagione della Scala, Don Carlo (e non Don Carlos, la versione italiana, un atto in meno rispetto alla francese). Regia di Stéphane Braunschweig, direzione musicale di Daniele Gatti. Tutti alle prese con la tragica vicenda di un adolescente sognatore, innamorato perso di una coetanea, la 14enne Elisabetta di Valois. Colpo di fulmine ricambiato ma di breve durata. Perché quel mascalzone di Filippo II, papà di Carlo, rimasto momentaneamente vedovo (aveva già seppellito due mogli) vuol per sé quella fresca fanciullina, che per di più gli suggella la recente pace tra Spagna e Francia, e detto fatto, ruba la ragazza al figlio e se la sposa. Il giovanotto però non si rassegna: insiste e non resiste alle grazie di colei che ormai è diventata la sua matrigna. L’incesto incombe, la rivoluzione preme, la vendetta è in agguato, le turbe mentali anche.
Insomma, torbidissimi intrecci di famiglia, roba che solo a Beautiful...
Ovvio che finirà malissimo.
«Una storia morbosa, più da film giallo alla Dario Argento che da melodramma da manuale», scherza Fiorenza Cedolins, radiosa nelle bianche vesti bordate d’oro della principessa di Valois. «E’ la terza volta che la interpreto», racconta la bruna soprano friulana. Stavolta però è un po’ speciale. Quella del 7 dicembre è una febbre più contagiosa del raffreddore: «Cerco di non farmi coinvolgere nel crescendo della tensione, il meglio di sé lo si dà quando si è rilassati », assicura incrociando le dita. «Elisabetta è un ruolo molto difficile perché molto sfumato, una donna che sopravvive alla propria morte interiore, che avviene quando s’infrange il sogno d’amore. Il dolore può uccidere o darti l’anestesia della vita».
Tanto più che l’amato non sembra uno in grado di padroneggiare la situazione. «Carlo non è un eroe, ma un giovane fragile, insicuro, disperato – lo descrive Giuseppe Filianoti che gli presta la sua voce tenorile ”. In conflitto con il padre che non lo ama nè lo considera. Anzi gli sottrae l’unico suo oggetto d’amore. Il suo bisogno disperato di affetti fa di lui una sorta di Werther verdiano, dall’emotività esasperata, quasi femminile. Uno che sviene facilmente (ma il vero Carlo era epilettico) e il suo legame con il marchese di Posa (Dalibor Jenis, ndr), l’amico del cuore, colui che Filippo II avrebbe voluto come figlio, può esser sospettato di risvolti omosessuali. In realtà il vero "uomo" della situazione è Elisabetta. Lei agisce, lei lo incita anche alle soluzioni più estreme: Se mi ami, uccidi tuo padre».
«Fossi davvero lei, tra Carlo e Filippo non avrei dubbi, sceglierei quest’ultimo – confessa Cedolins, che per quel nome deve avere una simpatia speciale visto che suo marito si chiama anche lui Filippo, Filippo Militano. «Omonimie a parte, trovo che tra i due non ci sia partita: Filippo II (Ferruccio Furlanetto) è senz’altro molto più fascinoso. E così purtroppo la pensa anche Eboli (Dolora Zajick) la mia rivale. Verdi nell’opera lo invecchia, a sottolinearne il perverso desiderio. In realtà quando sposò Elisabetta, lui aveva 33 anni. La differenza d’età c’era, ma Filippo di certo risultava più attraente di suo figlio».
«Pure lui però deve fare i conti con un padre, anzi con due – aggiunge Filianoti – da un lato il Grande Inquisitore (Matti Salminen), cieco rappresentante di una Chiesa spietata, dall’altro quel Carlo V che a 40 anni si era ritirato in un convento senza dar più notizie ».
Un’opera di padri e figli, un’opera di fantasmi. Le anime inquiete dei viventi e forse uno spettro vero: Carlo V che appare nel finale è il nonno divenuto monaco o la sua ombra? E quella tomba verso cui trascina il nipote sventurato, contiene il suo cadavere o è solo un vuoto sepolcro? La risposta a Dario Argento.
Qui a fianco da sinistra: Giuseppe Filianoti con il regista francese Stéphane Braunschweig che abbraccia Fiorenza Cedolins
Principessa
Fiorenza Cedolins nei panni di Elisabetta di Valois durante le prove del «Don Carlo»
Giuseppina Manin