Enzo Bettiza, La Stampa 3/12/2008, 3 dicembre 2008
Dopo l’assalto a Bombay, oggi Mumbai, l’elementare idea gandhiana della «non violenza», alla quale comunemente si associa l’immagine dell’India, è stata smentita un’ennesima volta con inaudita e spettacolare ferocia
Dopo l’assalto a Bombay, oggi Mumbai, l’elementare idea gandhiana della «non violenza», alla quale comunemente si associa l’immagine dell’India, è stata smentita un’ennesima volta con inaudita e spettacolare ferocia. Non occorre riandare al 1947, anno della sanguinosa spartizione tra il Pakistan islamico e l’Unione Indiana a maggioranza indù, per ricordarci che il subcontinente sorto con due Stati nemici dallo smembramento dell’impero britannico era ed è in realtà uno dei luoghi più violenti del pianeta. Non occorre nemmeno rammentare che l’assassinio, mistico e politico insieme, ha distanziato sempre di più indiani e pachistani dall’irenica capretta del Mahatma Gandhi sacrificandola addirittura al letale possesso di due bombe atomiche contrapposte. Lo stesso Gandhi, predicatore di un pacifismo integrale perché consapevole della violenza che si sarebbe decuplicata con l’approdo caotico all’indipendenza, verrà assassinato nel 1948 da un fanatico indù. Indira Gandhi, figlia dell’orgoglioso e tollerante Pandit Nehru, bramino laburista educato a Cambridge, sarà uccisa da estremisti sikh nel 1984. A sua volta il figlio di Indira Rajiv, ex primo ministro e leader del partito laicizzante del Congresso, verrà trucidato nel 1991 da un terrorista tamil. Ma la cronologia del terrore, già prima della grande operazione in stile militare di novembre, s’era fatta via via massiccia nel Kashmir e sempre più incalzante nella stessa Mumbai, simbolo e vivaio del «miracolo economico» della più popolosa democrazia asiatica. 1993: muoiono 250 persone in una serie di attacchi con bombe, interpretati quale rappresaglia per la demolizione di una moschea da parte di integralisti indù. 2003: producono più di 50 morti due autobombe, collocate all’esterno dell’hotel Taj Mahal, non lontano dall’arco monumentale chiamato «Gateway of India». 2006: causa oltre 180 vittime una sequela di esplosioni alla stazione centrale ed altre minori destinate al traffico dei pendolari. Come si vede, la Bombay di allora aveva già vissuto e nell’insieme superato, per quantità di cadaveri, il massacro che ha appena colpito la Mumbai odierna. L’elemento che però differenzia di netto il recente massacro da quelli precedenti è nella qualità strategica e politica dell’operazione attribuita, per la prima volta con insistenza, ad un gruppo non meglio identificato di «mujahideen indiani». L’assalto dei terroristi, convergenti per terra e per mare verso i grandi alberghi della metropoli, indirizzati precipuamente alla cattura e allo sterminio di ospiti americani, britannici ed ebrei, ha fatto sorgere il legittimo sospetto che dietro gli assalitori ci fosse la mano di due potenti organizzazioni: gli ambigui servizi segreti di Islamabad che notoriamente, nelle frange più militanti e antiamericane, collaborano sottobanco con Al Quaeda che a sua volta foraggia e aiuta i guerriglieri talebani nelle incontrollate zone di confine tra Pakistan e Afghanistan. Insomma una riedizione in chiave moderna e fondamentalista del «Grande Gioco», già descritto da Kipling, che fin dai tempi della regina Vittoria regolava scontri e intrighi fra potenze rivali in quelle regioni in perenne turbolenza. Si aggiunge poi al tutto un’ulteriore e allarmante novità. Si è appurato che quasi tutti i terroristi, compreso l’ultimo sopravvissuto, parlavano hindi e urdu, lingue usate da molti musulmani indiani del Nord e dai vicini pachistani. In tali idiomi essi, nelle brevi pause dell’attacco, rivolgendosi alle televisioni locali chiedevano alle autorità di rimettere immediatamente in libertà i musulmani detenuti nelle carceri indiane, in particolare quelli del Kashmir. Finora i 150 milioni di islamici indiani erano ritenuti, perfino dal presidente Bush oltreché dal premier di Nuova Delhi Manmohan Singh, immuni al contagio terroristico. Dopo l’aggressione bellica al centro commerciale di Mumbai quell’opinione positiva è calata e i dubbi sono aumentati. L’«Economist», descrivendo lo stato di frustrazione sociale in cui versano gli islamici rispetto alla privilegiata maggioranza indù, conclude con un monito il suo principale editoriale: «Gli attacchi in corso (che si svolgono all’egida fondamentalista) potrebbero tornare utili ad Al Qaeda per alimentare e sfruttare il panico dell’assedio che cresce fra i musulmani isolati. Se ciò dovesse accadere in India, dove vive la più grande minoranza musulmana del mondo, le conseguenze per la lotta globale al terrorismo potrebbero rivelarsi catastrofiche». Le implicazioni potrebbero aggravarsi, anche di più, se ad un neoterrorismo islamista dovesse rispondere l’antagonismo armato di un neoterrorismo induista. La nuova violenza, in tal caso, s’innesterebbe e trarrebbe detonatori scatenanti dalle violenze più ancestrali che covano da millenni fra l’Indo e il Gange funereo. Ritrovo nel recente libro memorialistico di Alberto Ronchey, Viaggi e paesaggi in terre lontane, la conferma di ricordi e impressioni che io stesso conservo dei miei viaggi nel subcontinente asiatico. Egli, attirato dagli orrori umani riemergenti dal Gange come da una «storia prechirurgica», rammenta la visione sotto il sole cocente di monaci «dal manto color ocra» intenti alla farneticazione ascetica: «E’ un disfacimento santificato che sa di violenza, sotto forma di passività inerme. Dovunque un delirio pietistico e superbo insieme, che celebra l’immolazione della persona all’assoluto cosmico». Ricordo anch’io la falsa «non violenza» di digiunatori estremi, suicidi mistici, santoni ignudi che fissavano il sole per accecarsi e rivolgevano così contro se stessi un’autoviolenza muta quanto implacata. Ricordo la strana sensazione che mi davano le folle inerti che, indifferenti al male fisico degli uomini, rispettavano invece la vita di milioni di scimmie, di vacche sacre, serpenti e ragni, nei quali sembravano vedere reincarnati i propri defunti. Ricordo il mondo dantesco e torbido di Calcutta, abbandonata durante la guerra con Pechino del 1962 dalla comunità cinese che ne curava l’igiene e l’assetto urbano: ne risento il caldo sui quaranta gradi, ne rifiuto l’afrore dolciastro di serra in decomposizione, ne rivedo le vaganti nubi di vapore bianco attraverso le quali apparivano e scomparivano, come in un incubo fissato dal bulino di Doré, mostri amputati rotolanti nella polvere, lebbrosi saltellanti, malati incurabili giunti a elemosinare e a morire nell’obitorio calcuttiano. In mezzo a tanta agonia svettavano le torri immacolate della seconda famiglia miliardaria dell’India, la dinastia Tata, racchiusa in un compound somigliante a un castello feudale circondato da guardie sikh in turbante armate fino ai denti. Ma il paradosso era che la vita si riproduceva con intensità anch’essa violenta fra le violenze mortali e, per modo di dire, non dava tregua alla morte. Le schiere urbane dilagavano a velocità sconvolgente in una vitalità d’acquitrino: oggi la sovrappopolazione indiana, malgrado le sterilizzazioni raccomandate e pianificate anni orsono dal governo, ha già superato la soglia di un miliardo e 100 milioni, su una superficie che è circa un terzo rispetto a quella della Cina. Fino a che punto violenza e sviluppo, analfabetismo e software, preistoria e modernità, staticità castale e dinamismo pragmatico riusciranno a convivere nell’enigma indiano del terzo millennio? Quando il «karma capitalism» dei nuovi imprenditori Mittal, Mahindra, Ambani, non più feudali come i Tata e i Birla, riuscirà a raggiungere se non a superare i successi del «capitalismo confuciano» dei giganti del Pacifico? Benché considerata ormai una superpotenza economica, gli ostacoli che l’India di Manmohan Singh deve ancora aggirare o abbattere sono tanti: deficit di bilancio, debito estero, infrastrutture vulnerabili, turbolenze locali, penurie d’energia elettrica e di risorse idriche, analfabeti adulti oltre il 60 per cento, denutrizione di 400 milioni di cittadini sotto la soglia di povertà. Infine, il problema atavico di sempre. La violenza interetnica e interconfessionale su cui, dopo il lampo di guerra a Mumbai, aleggia l’ombra vicinissima di un Pakistan nucleare infiltrato dagli specialisti della jihad e del terrore.