Giacomo Rizzolatti, La Stampa 3/12/2008, 3 dicembre 2008
GIACOMO RIZZOLATTI PER LA STAMPA DI MERCOLEDì 3 DICEMBRE 2008
E poi cosa succede? Nulla. Ma i professori fanno ricerca? Avrei dei dati oggettivi legati ad una classificazione dei docenti della mia università. Ma sono riservati. Vi consiglio di fare un gioco. Andate su Google Scholar, ricerca avanzata, e mettete il nome di un certo numero di docenti. Google Scholar vi indica quante volte i lavori del docente selezionato sono stati citati. Bisogna avere presente che i lavori scientifici sono dei prodotti che devono servire. Qualcuno deve leggerli. Se no, a cosa servono? Bene. Con questo giochino in mezz’ora vi sarà chiaro che la «famosa» psicologa che dirige il dipartimento della vostra università ha un lavoro citato una decina di volte (molto poco se si considerano le autocitazioni) e poi basta. Gli altri suoi lavori sono stati citati al massimo due volte. In altre parole non ha mai fatto niente. Ed il fisico che conciona in piazza a favore dell’università pubblica (quella dove lui passa il suo tempo senza fare niente) ha uno «score» ancora peggiore. In mezz’ora vi sarà chiaro che una percentuale non trascurabile di professori (i «non-professori») non ha alcuna produzione scientifica. Naturalmente tutti sono andati ai congressi dove hanno presentato «fondamentali relazioni». Turismo e Scienza. Google però questi «contributi» non li conta.
Cosa fare? Semplice. Togliere dall’università la zavorra dei non-professori. Non è compito mio indicare la soluzione giuridica migliore, ma penso che ce ne siano molteplici, dal licenziamento per giusta causa ai prepensionamenti, fino all’istituzione di una categoria di «insegnanti universitari» con stato giuridico simile a quello dei professori di liceo e stipendio agganciato e a contratti che mantengono il titolo anche a vita (ma non lo stipendio) in caso di medici, avvocati, consulenti, che sono utili alla società e che possono dare un contributo come insegnanti, ma che non sono professori universitari in senso proprio.
Se si adottassero queste misure, la drammaticità dei concorsi sparirebbe subito. Non so quanto importerà al professore di Bari (esempio di moda, anche se nel mio campo è doveroso dire che Bari è una sede eccellente) sistemare il figlio o l’amica all’università, se saprà che questi ogni tre anni corrono il rischio andare a spasso. Preferirà un posto in Regione.
L’eliminazione dei «non-professori» sgonfierebbe anche il secondo meme, i giovani. Chi sono i «giovani»? Esistono due categorie: quelli che sono già nell’università, a vario titolo, e quelli che aspettano di entrare all’università. Per quanto riguarda i primi, non si capisce perché dovrebbero avere caratteristiche morali e scientifiche migliori dei professori più anziani. Anzi, se dovessi scommettere su un derby tipo scapoli-ammogliati sulla produzione scientifica, punterei sugli anziani (e vincerei: ci sono i dati su «Nature»).
Se si giudica sul merito, non esistono giovani o vecchi, esistono professori e non-professori. Diceva Arbasino che, durante il fascismo, per sapere cosa succedeva fuori Italia bastava andare a Lugano. Oggi si può anche stare a casa. Basta mandare una e-mail ad un collega straniero o leggere «Nature» (vedi «Retire retirement»). Si scoprirebbe che il pensionamento legato all’età non c’è negli Usa, non c’è in Canada ed è stato abolito in Australia. Eppure le università di quei Paesi sono le migliori al mondo. Strano eh? Ma non è colpa dei «vecchi», se in Italia l’università va male?
Facciamo un altro gioco. Fare ricerca è una capacità legata ad uno specifico talento, come quello di fare musica o dipingere. E se proibissimo a Muti o Abbado di dirigere o a Piano di fare un progetto? Direste che è una follia. Eppure questo non solo è propugnato da molti in questi giorni, ma è stato anche messo in pratica dalla famigerata legge Mussi sui fuori ruolo. Demenziale.
Ma torniamo ai giovani. Attualmente, grazie ai fondi europei e privati, e nonostante la politica di presidi e rettori volta a distruggere la ricerca, inventando corsi di laurea inverosimili ed «università» nei luoghi più sperduti, i gruppi scientifici più validi sono riusciti a creare in Italia un gruppo notevole di scienziati giovani di valore assoluto, con le carte in regola per diventare professori, associati o di prima fascia. Queste forze veramente vive sono lì che aspettano, mentre i non-professori (giovani e vecchi) discutono dell’istituzione di master inutili ed altre cose di pari rilevanza. Cosa fare? Facile. Se si togliesse la zavorra dall’università, il discorso giovani sparirebbe e forze veramente nuove entrerebbero. Se la zavorra non si toglie, nessuna reale riforma è possibile. Sorteggio o non sorteggio.
Tolta la zavorra, molte sono le soluzioni possibili. Una ottima è quella proposta dall’ex ministro Visco. Lucida e chiara. Se una volta tanto si facesse qualche cosa di condiviso, indipendentemente dai possibili guadagni elettorali?