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 2008  dicembre 03 Mercoledì calendario

In pensione alla stessa età, non importa se si è uomini e donne. In Europa è la norma – Grecia e Austria, che prevedevano età pensionabili differenziate, hanno varato riforme che porteranno alla parità tra i sessi nel prossimo decennio – in Italia no

In pensione alla stessa età, non importa se si è uomini e donne. In Europa è la norma – Grecia e Austria, che prevedevano età pensionabili differenziate, hanno varato riforme che porteranno alla parità tra i sessi nel prossimo decennio – in Italia no. Per potere ottenere la pensione di vecchiaia, da noi, bastano 60 anni alle donne, mentre ne occorrono 65 agli uomini. Non è difficile comprendere i motivi che hanno portato a questa disparità (difatti poco contestata): in Italia le donne lavorano poco – hanno un tasso di occupazione del 46% contro il 70% degli uomini – e poco sono pagate, dato che la retribuzione media per i lavoratori dipendenti non supera i 15 mila euro per le femmine mentre si avvicina ai 21 mila per i maschi. La disparità peggiora al momento del ritiro dal lavoro: il rapporto tra reddito da pensione e ultimo stipendio, in Italia, è del 64% per gli uomini e del 46% per le donne. Considerato che, andando in pensione prima, le donne hanno di solito meno anni di contribuzione alle spalle, i loro assegni previdenziali sono parecchio leggeri. Al primo gennaio 2006, spiegano dall’Inps, l’importo medio delle pensioni delle donne era di 520 euro, contro i 980 erogati ai pensionati di sesso maschile. Da sempre i governi promettono di migliorare la situazione lavorativa delle donne, ma in Italia la cosa non è mai riuscita. In attesa di raggiungere questa parità sessuale, l’Italia ha pensato di risarcire le donne consentendo loro di andare in pensione più tardi. Una soluzione del tutto lecita, dal punto di vista legale, se applicata al regime dell’Inps, che vale per la maggioranza dei lavoratori dipendenti del settore privato. La disparità è invece illegale per l’Inpdap, l’istituto di previdenza degli statali. Lo ha stabilito la Corte europea lo scorso 13 novembre, sulla base di un articolo della Ue che vieta ogni forma discriminazione tra uomini e donne sul lavoro. I giudici del Lussemburgo hanno tirato fuori una specie di cavillo: dato che la pensione dell’Inpdap riguarda una particolare compagnia di lavoratori, è legata direttamente agli anni di servizio prestati e ha un importo calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente pubblico, l’assegno non è un semplice trattamento previdenziale pubblico, ma una vera e propria retribuzione. E dato che la pensione dell’Inpdap è quindi uno stipendio, e può essere considerata ”comparabile a quella che verserebbe un datore di lavoro privato ai suoi ex dipendenti” è arrivata la condanna europea. Ora l’Italia dovrà sistemare la faccenda o attendere una nuova condanna, stavolta corredata da una multa giornaliera che può andare da 11.904 a 714.240 euro. Il governo, preso da altre faccende, ha preso tempo. ”Rifletteremo su questo argomento – ha commentato subito il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi – nel settore pubblico si possono oggettivamente valutare queste cose, nel settore privato no”. Ma la questione non è affatto semplice. Per prima cosa perché il primo effetto della sentenza non sarà l’innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile delle donne che lavorano nel pubblico ma, al contrario, l’abbassamento a 60 di quella degli uomini. Perché in questi casi vige il principio favor prestatoris: si salva il trattamento più favorevole, non quello più svantaggioso. Così gli statali maschi potrebbero all’improvviso andare tutti in pensione a 60 anni, stravolgendo conti previdenziali nazionali già barcollanti da anni. Il governo potrebbe agire per impedirlo, magari con un decreto legge che imponga l’età pensionabile a 65 anni per uomini e donne del pubblico impiego. Però in questo modo la legge violerebbe il principio nazionale della parità di trattamento tra tutti i cittadini italiani, obbligando gli statali donna a lavorare di più delle loro colleghe del privato. Sarebbe solo il minore dei mali, perché anche questa soluzione in realtà non risolverebbe il problema. Infatti le dipendenti pubbliche potrebbero aggirare facilmente l’ostacolo: avrebbe pieno diritto di dimettersi a 60 anni, quando l’Inpdap non potrebbe liquidarle la pensione, e avere l’assegno dall’Inps. La legge 322/58 prevede che quando uno statale perde il posto tutti i contributi dati all’Inpdap passino all’Inps, e a quel punto la ex dipendente pubblica potrebbe chiedere e ottenere subito la pensione di vecchiaia. Sarebbero 1 milione e 400 mila lavoratrici all’anno a potere fare questa manovra, spiegano dall’Inpdap, abbastanza da mandare per aria il bilancio dell’Inps. Qualche soluzione il governo dovrà trovarla. Sacconi da tempo ha fatto capire che non ha nessuna intenzione di equiparare l’età pensionabile di uomini e donne. Su pressione del ministro del Lavoro, a fine ottobre tre senatrici del Pdl, Cinzia Bonfrisco, Ombretta Colli e Maria Ida Germontani, hanno ritirato il proprio appoggio alla richiesta di equiparazione proposta da Emma Bonino. Una lettera aperta, quella della senatrice radicale da sempre in prima fila in questa battaglia, sottoscritta da un gruppo di parlamentari del Pd e da studiosi come Fiorella Kostoris e Stefania Sidoli. La differenza d’età, sostiene la Bonino, non aiuta le donne, anzi, le penalizza, perché impedisce loro di avere un monte contributivo accettabile e quindi ottenere un assegno previdenziale almeno simile a quello degli uomini. Dall’Inpdap, però, fanno presente che la soglia di 60 anni è una possibilità, non un obbligo: le donne che intendono continuare a lavorare nella pubblica amministrazione fino ai 65 anni hanno tutto il diritto di farlo. A scorrere attentamente le undici pagine della sentenza europea, in effetti, si constata che i giudici del Lussemburgo non hanno bocciato il sistema dell’Inpdap in quanto penalizzante per le donne (anche se gli avvocati della Repubblica hanno impostato la difesa su questa idea), la bocciatura è arrivata perché il sistema è discriminatorio: di chi sia il vantaggio non importa, per la Ue l’Inpdap non deve fare differenza tra maschi e femmine. Quella decisione del 13 novembre potrebbe presto costringere il governo a riaprire il pesante dossier sulla previdenza. La crisi ha mandato in recessione tutta l’economia occidentale, questo non sembra proprio il momento migliore per grandi ristrutturazione della legislazione sul Welfare che porterebbero, per forza di cose, a un inasprimento dei requisiti pensionistici con l’inevitabile strascico di sollevazione sindacale e popolare. La soluzione, dicono in tanti, sarebbe una previdenza più flessibile, uguale per uomini e donne ma con ampi margini di scelta per i lavoratori. Ricordando che l’età unica non è un tabù intoccabile. L’abbiamo già vissuta, per qualche anno: la riforma Dini, nel 1995, aveva fissato a 57 anni l’età di ritiro dal lavoro indipendentemente dal sesso. Ma la soglie era così bassa che Maroni, pochi anni dopo, ha dovuto rimettere mano alla legge, reintroducendo, però, la discriminazione sessuale.