Alfio Caruso, La Stampa 2/12/2008, 2 dicembre 2008
Nel 1971 arrivando da Catania a Milano il disorientamento poteva durare settimane. Non era dovuto al semplice rispetto del codice stradale, ai marciapiedi liberi da auto in sosta, alla possibilità di attraversare la strada senza essere travolti, agli uomini che cedevano il passo alle donne al momento di salire sui mezzi pubblici, all’abitudine di far sedere le persone anziane e le signore incinte; il disorientamento era dovuto al prevalere della creanza, dalla quale discendevano i piccoli comportamenti virtuosi che stupivano l’aspirante meteco appena sfuggito all’eccessivo calore del Meridione
Nel 1971 arrivando da Catania a Milano il disorientamento poteva durare settimane. Non era dovuto al semplice rispetto del codice stradale, ai marciapiedi liberi da auto in sosta, alla possibilità di attraversare la strada senza essere travolti, agli uomini che cedevano il passo alle donne al momento di salire sui mezzi pubblici, all’abitudine di far sedere le persone anziane e le signore incinte; il disorientamento era dovuto al prevalere della creanza, dalla quale discendevano i piccoli comportamenti virtuosi che stupivano l’aspirante meteco appena sfuggito all’eccessivo calore del Meridione. Prima di essere la capitale dell’economia, della stampa, della moda, benché i futuri stilisti venissero chiamati sarti, Milano era la capitale dell’educazione elargita e pretesa. A simbolo assurgeva l’anziana signora pronta a sbattere l’ombrellino sul cofano dell’auto colpevole, sulle strisce pedonali in via Senato, di aver frenato troppo vicina. E il consenso dei passanti sottolineava che quell’ombrellino veniva sostenuto da cento mani. Proteste, rabbia, odi segnavano vie e piazze, tuttavia la cortesia del vivere, il regalo di un sorriso, la spontaneità del saluto rappresentavano la regola, non l’eccezione. Nelle pieghe degli affari e sui divani dei salotti si esibivano farabutti, pescecani e maliarde in numero identico a quello attuale, ma almeno - Arbasino docet - non portavano i pantaloni con la vita bassa. E il dialetto, dolce e sincopato, delle mercerie e dei panifici, degli artigiani e dei tassisti fungeva da colonna sonora, costituiva il veicolo di trasmissione delle buone maniere: ai meteci era concesso di non saperlo pronunciare, non di sconoscerlo. Oggi Milano ha perso le sue botteghe, ha perso il dialetto, soprattutto ha perso l’educazione. Le macchine posteggiate in seconda fila, davanti agli scivoli degli handicappati, sulle rare piste ciclabili; gli epiteti truculenti che si scambiano guidatori di auto e di moto; l’assalto tracotante ai sedili della metropolitana, degli autobus, dei tram; le dieci soperchierie alle quali si può assistere percorrendo a mezzogiorno via Manzoni non esprimono il malessere della nostra epoca, bensì l’imbarbarimento della città. Da esso deriva la rottura del patto di grande tolleranza fra le diverse anime, che ne ha scandito la crescita. Neppure la Milano delle tangenti avrebbe sconvolto il tessuto urbano e l’esistenza degli abitanti con l’imposizione di smisurati cantieri per parcheggi il più delle volte inutili. Fino ad Albertini nessun sindaco, ladro o perbene che fosse, avrebbe compiuto un simile sopruso non venendo per altro chiamato a renderne conto. La Milano resa illustre dal fucecchiese Montanelli, dal triestino Strehler, dal pugliese Grassi, dall’alessandrino Eco, dal piacentino Armani, avrebbe concesso a occhi chiusi l’Ambrogino d’oro al bolognese Enzo Biagi senza questionare sui riconoscimenti già attribuitigli. Nell’educazione di Milano, che durante gli anni di feroce contrapposizione ideologica menò vanto delle scudisciate di Dario Fo, rientrava la deferenza verso chi compiva al meglio il proprio lavoro. Da ambo i lati della barricata si praticava la religione del dovere: allora si prediligeva la politica del fare e non c’era motivo di annunciarla; adesso, malgrado gli annunci, pare che al fare vengano anteposti atti di fede, dichiarazioni d’appartenenza. Viceversa l’appartenenza si dimostrava ricostruendo la Scala, distrutta dai bombardamenti, prima ancora delle case. I suoi musicisti mai avrebbero privato i concittadini dell’orgoglio della prima per una rivendicazione sindacale. D’altronde perché i soli orchestrali della Scala dovrebbero avere a cuore le sorti di una città che, otto mesi dopo essersi aggiudicata l’Expo, continua a litigare per le competenze d’un amministratore? Al confronto sostituire Mattei e Cuccia fu un esercizio accademico. Purtroppo Milan non l’è più un gran Milan. Stampa Articolo