Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 2/11/2008, 2 novembre 2008
dal nostro inviato PAOLO DI STEFANO BOLOGNA – Esistono castelli di carte solidi come fortezze medievali: certe case editrici lo sono
dal nostro inviato PAOLO DI STEFANO BOLOGNA – Esistono castelli di carte solidi come fortezze medievali: certe case editrici lo sono. Prendete la Zanichelli, nata nel 1859 a Modena per iniziativa di un libraio che un giorno incontrò Carducci stabilendo con lui un sodalizio paragonabile a quello di Laterza e Croce. Lo sa bene Federico Enriques, oggi amministratore delegato della Zanichelli, che in attesa di celebrare il centocinquantesimo della sua casa editrice pubblica un libro intitolato appunto Castelli di carte (Il Mulino, pp. 557, e 32), in cui rievoca il suo mezzo secolo vissuto al servizio dei libri. Enriques entrò in via Irnerio 34 nel 1960, diciannovenne studente in giurisprudenza, e non ne è ancora uscito, anche se nella quarta di copertina, obbedendo a un suo autoironico understatement, si definisce ex direttore. Anche il suo libro, a ben guardare, è un solidissimo castello di carte che non è, come spesso capita in pubblicazioni del genere, esclusivamente una storia intellettuale. Si tratta di una cronaca dall’interno, che si concentra sulle persone anche dal punto di vista umano, sull’organizzazione dell’azienda, sugli aspetti amministrativi e sui risvolti artigianali, mescolando ricordi, aneddoti, confidenze, ritratti di amici, considerazioni generali di carattere politico-culturali, schede tecniche, ragguagli sulle procedure tipografiche, considerazioni sulla distribuzione, sull’adozione e sul lettore-cliente. Fu un professore di geometria a rilevare la Zanichelli negli anni 30, dopo che la casa editrice finita in cattive acque venne salvata da Mussolini. Si chiamava Federigo Enriques, famiglia di ebrei arrivati in Italia nel Seicento: era il nonno dell’attuale amministratore delegato e aveva già collaborato con il fondatore scrivendo un fortunato manuale e consigliando come autore il giovane Fermi. Nel dopoguerra entrò in scena Giovanni e poco dopo i figli Lorenzo e Federico, appunto: «Il fatto che mio padre fosse ancora impegnato per lo più a Ivrea nell’Olivetti mi ha molto aiutato: non c’è stata quella cosa terribile che si verifica spesso nelle aziende quando padri e figli hanno gli uffici vicini». Sin da ragazzo Federico sa, per eredità familiare, che l’editoria scolastica è un mondo a sé: «Il primo sforzo fu quello di convincere i miei collaboratori che l’editoria scolastica non è un’editoria di serie B». vero, anche se gli autori non sono i grandi nomi della letteratura. Nella Zanichelli confluiscono, da subito, due anime: quella umanistico- carducciana e quella scientifica (al 1864 risale il primo Darwin italiano): «Scrivere un libro per la scuola non è un mestiere facile, specialmente negli ultimi tempi, da quando la concorrenza si è fatta spietata, con la didattica multimediale che si propone come alternativa reale e spesso molto creativa». Tra le schede che nel libro ricordano i titoli più fortunati e famosi della Zanichelli ce n’è una che porta il nome di Italo Calvino, autore con Giambattista Salinari di un’antologia per la scuola media, La lettura, che uscì nel 1969. Enriques ricorda: «Calvino visse la cosa come una sorta di tradimento. Era terrorizzato da quel che avrebbe detto Giulio Einaudi». E infatti in una lettera scriverà: «Devo lavorare di nascosto perché quando lo sapranno all’Einaudi non so quali fulmini mi attirerò sul capo, e perciò preferisco che si sappia il più tardi possibile». In realtà il contributo del grande scrittore, che si limitò a poche sezioni, dopo il successo immediato non bastò a regalare all’opera una tenuta duratura. «Inoltre Calvino – scrive Enriques – non volendo auto- includersi, di fatto escluse quasi tutti gli altri scrittori italiani suoi contemporanei». Cosicché i docenti sessantottini si trovarono tra le mani un’opera che non poteva incontrare il loro entusiasmo: poco sociologica e per niente proiettata sul presente. «Per di più, tra gli anni 60 e i 70 ci fu una campagna contro i testi scolastici: si diceva che erano strumenti dannosi, portatori di una cultura vecchia. Del Pazzaglia si diceva che aveva la caramella in bocca: un’antologia sdolcinata...». Castelli di carte percorre anche le vicissitudini dell’editoria in rapporto alle mille riforme scolastiche auspicate, progettate, minacciate, fallite. Dice Enriques: «Fino agli anni 80 si pensava che davvero la scuola fosse il primo ascensore sociale: insegnanti e famiglie erano convinti che attraverso la formazione scolastica si potesse migliorare la qualità della vita civile. Poi il mondo della scuola è diventato, nel vissuto collettivo, molto più periferico e persino mal tollerato. E l’editoria ne ha sofferto». Durante l’ultimo governo Prodi, Enriques ha lasciato la casa editrice per trasferirsi in Senato nelle file dei Ds. Oggi parla di «pressioni politiche» sui singoli libri: «Ricordo che una volta intervenne la lobby dei cacciatori per far togliere da un libro delle considerazioni contro la caccia. La comunità ebraica è sempre sensibilissima. Ma l’ultimo scontro politico si è verificato con l’autore di un libro di latino che aveva inserito note discutibili su Moro e su Berlusconi: gli chiesi di toglierle e lui ritirò il lavoro». Ci sono però confronti con la politica che sono più impegnativi, come la recente polemica sull’aggiornamento dei libri di testo: «C’è un codice per cui bisogna fare delle nuove edizioni solo ogni due-tre anni, ma dove le novità devono essere almeno del 20 per cento. Non è vero che gli editori si inventano degli aggiornamenti per vendere nuovi libri e far spendere le famiglie, girano troppi luoghi comuni su questa faccenda: la vita media dei nostri titoli è di sei-sette anni. Certo, per alcune materie gli aggiornamenti sono più necessari, geografia, diritto, ragioneria... Dunque è assurdo stabilire, come è stato fatto di recente, che ogni adozione nelle scuole superiori debba durare almeno sei anni, perché viene meno lo stimolo alla qualità. Non bisogna dimenticare che un editore guadagna solo se ha prodotto un buon libro capace di durare». Quanto a lunga durata, tra i 17-18 mila volumi del catalogo Zanichelli c’è solo l’imbarazzo della scelta. Due o tre nomi: il Pazzaglia, un’antologia che tenne banco dal ’64 per oltre trentacinque anni; il Camera e Fabietti, l’intramontabile Storia uscita nel ’65 e in anni recenti accusata di essere troppo «di sinistra» (sottovalutava il fenomeno delle foibe); lo Zingarelli, il dizionario-monumento della lingua italiana, acquisito dalla Bietti nel ’41. Ormai le opere di consultazione, tra dizionari e atlanti, rendono un sesto del fatturato. Sono lontani i tempi in cui Garzanti era un concorrente che preoccupava. Oggi ognuno ha preso la sua strada. Ed Enriques non invidia nessuno.