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 2008  dicembre 01 Lunedì calendario

In Africa le patatine fritte non c’erano. Giovedì scorso, a Le Havre, all’imbarco dei 710 veicoli iscritti alla «Dakar 2009» che oggi, stipati nel pancione dell’enorme cargo «Grande Benelux», salperanno verso le coste argentine, invece l’odore di frites ammorbava il molo

In Africa le patatine fritte non c’erano. Giovedì scorso, a Le Havre, all’imbarco dei 710 veicoli iscritti alla «Dakar 2009» che oggi, stipati nel pancione dell’enorme cargo «Grande Benelux», salperanno verso le coste argentine, invece l’odore di frites ammorbava il molo. A metà pomeriggio il fuoristrada Toyota numero 400 - equipaggio composto da Hervé Diers e François Beguin - ha aperto il lato sinistro dell’abitacolo come una serranda e ha iniziato a distribuire cartoccini unti. La macchina è sponsorizzata dagli inventori delle friggitorie mobili, come quella di Momo in «Giù al Nord», il film che l’anno scorso ha fatto impazzire i francesi. Ci saranno frites gratis per tutti anche in gara, e il dieci per cento dell’olio sarà man mano riconvertito in carburante (si spera non il contrario). l’ecologia, ragazzi. Sono i tempi che cambiano, anche per la Dakar. Odore di sagra di paese al posto del profumo selvaggio e speziato di sangue della grande notte africana. Dentro la Dakar, del resto, di africano è rimasto giusto il nome, e il touareg stilizzato del logo che chissà che effetto farà alla gente della pampa, agli argentini, ai cileni che dal 2 al 17 gennaio prossimi si vedranno sfilare davanti la ex gara più pericolosa e maledetta del mondo, traslocata da un continente all’altro causa terrorismo. La corsa assassina e cannibale che alla fine si è arresa ai macellai e adesso sogna un futuro bello ma possibile, quasi borghese. Trent’anni fa, il 26 dicembre del 1978, la carovana di 182 pionieri della Parigi-Dakar si era ritrovata per la prima volta al Trocadero di Parigi, in attesa di infilarsi in una follia lunga 10 mila chilometri, destinazione Dakar, in Senegal. La Grande Avventura che rinasceva, per alcuni. Colonialismo a quattro cilindri, per altri. Da allora il più famoso dei rally raid ha perso il fondatore, Thierry Sabine, morto in gara nel 1986 precipitando con il suo elicottero, altre 24 vite fra i concorrenti, chissà quante senza nome nei villaggi lacerati dal lampo feroce della gara. Nel corso degli anni la boucle motorizzata aveva smarrito anche la rotta originaria, trasformandosi in Parigi-Città del Capo, poi in Dakar-Dakar; spostando la partenza da Parigi a Granada, a Barcellona, infine a Lisbona. Non aveva mai lasciato l’Africa, la grande madre del suo fascino corrusco, politicamente scorretto. «Non bisogna mai perdere di vista il sogno», predicava Sabine. L’anno scorso il sogno si era però definitivamente trasformato in incubo. Alla vigilia di Natale quattro turisti erano stati assaltati e uccisi in Mauritania da terroristi di Al Qaeda. Già nel ’92 la corsa, transitando nel Ciad in guerra, aveva dovuto subire furti, morti, ritiri in massa, imboscate della guerriglia. Si rischiava un bis, in peggio, sotto le telecamere della tv. Così, dopo le calde raccomandazioni del governo francese, gli organizzatori decisero di annullare tutto. L’Africa per l’ennesima volta nella sua storia è un continente in piena combustione, più che nero annerito da una serie infinita di conflitti che si trasformano facilmente in genocidi. Buttarcisi dentro a 140 all’ora su moto, camion e fuoristrada, solleticando l’interesse di bande criminali e terroristi in cerca di uno spot in mondovisione, non è più raccomandabile. A gennaio era stata ufficializzata la migrazione, oggi si parte. Con molte cautele. I docks di Le Havre sono stati blindati, e la traversata atlantica sarà compiuta tutta d’un fiato, senza i tre scali originariamente previsti. «Abbiamo preferito fare così», ha spiegato Etienne Lavigne, il direttore di gara, «perché non si sa mai: una nave bloccata, un atto di pirateria… Oggi può accadere di tutto». La strage di Mumbai, che ha interrotto la tournée della squadra inglese di cricket in India, ha aggiunto angoscia all’imbarco. A bordo dell’enorme cargo, lungo quasi 180 metri, vigileranno gli addetti dell’ASO, la società che organizza la prova. L’arrivo è previsto fra il 17 e il 19 dicembre a Zarate, un porto ad una sessantina di chilometri da Buenos Aires. Il percorso è un gigantesco anello steso fra due oceani che comprende le Ande, la Patagonia, il deserto di Atacama. Giro di boa a Valparaiso e arrivo di nuovo nella capitale argentina. «Sarà al 100 per cento una Dakar, non una camminata nel parco», promette Lavigne, «Con prove speciali molto dure e selvaggi bivacchi alla luce della luna». Poi però scopri che, percorrendo qualche chilometro in più, i concorrenti potranno scegliere di riarrotolare tende e sacchi a pelo e alloggiare in comodi hotel. «Non abbiamo dimenticato l’Africa, in futuro, quando le condizioni lo consentiranno, potremmo tornarci», giurano il presidente dell’Aco Patrice Clerc e Lavigne. Intanto hanno lanciato le «Dakar Series», un minicircuito di raid in Europa. Spettacolari, ma sicuri. Addomesticati. Bon voyage, Dakar. Eri un’altra cosa.