Siegmund Ginzberg, la Repubblica 1/12/2008, 1 dicembre 2008
«Un colpo in testa e non senti più niente». «E se non muoio subito?». «C´è rimedio anche a questo
«Un colpo in testa e non senti più niente». «E se non muoio subito?». «C´è rimedio anche a questo. Ti infilano una bacchetta nel buco della pallottola e ti frullano il cervello». Conversazione tra detenuti nel braccio della morte di un carcere cinese. Tanto per tirarsi su il morale. La crudeltà macabra, verbale, psicologica, nei confronti del prossimo e di se stessi, è un vecchio espediente per non uscire pazzi, se non per sopravvivere. Finché la dura. Solo che non è pura invenzione per scaramanzia. In Cina succede davvero. Usano uno strumento apposta, probabilmente per non sciupare gli organi destinati all´espianto. «No, da noi non c´è la tradizione per cui, se si spezza la corda, l´impiccato ha diritto alla grazia...», dice Kevin Feng Ke. Eppure il suo film, Ba Bai Bang, Lettere dal braccio della morte, presentato in anteprima mondiale e premiato agli Incontri con il Cinema asiatico di Roma (il 4 verrà riproposto al Nuovo Sacher di Roma), non è affatto la galleria degli orrori che uno si potrebbe aspettare. un film pacato, delicato, sussurrato quasi con dolcezza, poetico mi verrebbe quasi da dire se la parola si addicesse all´argomento. Racconta di una dozzina di detenuti che aspettano il loro turno stipati in un´affollata cella della morte (normalmente stanno ancora più stretti; in celle come quella rappresentata nel film se ne stipano anche una trentina e più). Giocano ad imitare, nel loro micromondo la gerarchia vera, persino la giustizia che li ha condannati, mimano processi, punizioni, distribuzione di incarichi. Bestemmiano, litigano, si picchiano, danno fuori di matto o fanno finta di essere matti. Della maggior parte, non si sa nemmeno perché siano stati condannati alla pena capitale. Si può immaginare che tra di loro ci siano assassini e violentatori, di uno ci viene detto che è stato condannato per traffico di droga, di un altro si capisce che è un pirata della strada, ha investito qualcuno e poi s´è dato alla fuga. C´è il prepotente, c´è l´infame, ci sono i duri, che tormentano quelli più deboli, e c´è chi ha naturalezza nel servilismo. Ma quello che li accomuna, il tratto che emerge su tutti gli altri è che sono tutti esseri umani. C´è persino una struggente storia d´amore tra la condannata in attesa di esecuzione, costretta a fare pubblico mea culpa dagli altoparlanti del carcere, e il prigioniero incaricato di registrare la edificante testimonianza. Niente sesso: tra questi innamorati nel film parlano solo gli sguardi. Mentre la scena forse più scabrosa è invece un´altra: quella del detenuto che tenta di masturbarsi ammanettato Per il resto il carcere, affollamento a parte, non fa particolarmente vomitare; le guardie non sono particolarmente cattive; i cattivi non sono particolarmente infami. Il cinema ci ha raccontato di ben peggio sulle carceri americane. Per non parlare di quelle turche. Una cosa quasi incredibile è che il film è stato girato in un vero carcere di massima sicurezza cinese, a pochi chilometri da Pechino, in un vero braccio della morte, con veri detenuti e vere guardie carcerarie. Ma come avete fatto?, ho chiesto al regista. «Ci siamo fatti passare per una troupe della televisione cinese, al lavoro su un documentario. Il direttore del carcere era ben contento che la sua prigione modello finisse sul teleschermo. Un incentivo finanziario ha vinto - come è abitudine in Cina - le residue titubanze. A parte i protagonisti principali, che sono attori professionisti, gli altri, gran parte dei detenuti, le guardie carcerarie, recitano sé stessi. Quando abbiamo cominciato a girare tutti facevano a gara a proporsi per il cast, a cominciare dai condannati». Tutto il mondo è proprio paese: a quanto pare nessuno resiste al fascino delle telecamere e della pubblicità, nemmeno nel braccio della morte. Quando Truman Capote scrisse "A sangue freddo", almeno il fascino era ancora quello della carta stampata. La storia narrata del film si basa su un libro regolarmente pubblicato di recente in Cina, intitolato appunto "Lettere dal braccio della morte". L´autore, Huan Jingting, è un piccolo delinquente che a fine anni Novanta era stato condannato per truffa a un anno e mezzo nel carcere di Chongqing. Siccome sapeva leggere e scrivere gli avevano affidato l´incarico di registrare le ultime dichiarazioni dei condannati a morte. Servono a scopo propagandistico. Nel libro ne ha raccolte ventidue. Ma come, la censura cinese glie le ha lasciate pubblicare così tranquillamente? «A dire il vero le autorità l´hanno convocato, ma solo per chiedergli di sorvolare su certi dettagli e, soprattutto, non dare cifre. Il numero delle condanne a morte eseguite in Cina resta un segreto di Stato. Da una cifra per un certo periodo in un certo carcere si potrebbe estrapolare il totale», risponde Kevin Feng Ke. E comunque tra i condannati cui aveva accesso non c´erano dissidenti politici, né alti dirigenti accusati di corruzione. Solo delinquenti "comuni" di quelli la cui sorte non fa molto clamore. «Si tratta del primo libro che mostra il lato umano dei condannati a morte che l´opinione pubblica è abituata a considerare criminali nati», a detta dello stesso autore. La pena di morte in Cina è da tempo argomento di denunce e di orrore. Tra le pubblicazioni più recenti e documentate c´è un libro con illustrazioni impressionanti e allegato persino un DVD di filmati di esecuzioni con stampigliata l´avvertenza: "Visione sconsigliata ai minori e alle persone impressionabili" (Cina, Traffici di morte. Il commercio degli organi dei condannati a morte, Guerini e Associati, 2008, pp.206). Ma il film di Kevin Feng Ke si distingue da tutto il resto. Non si vedono esecuzioni, non ci sono torture, non si evidenziano brutalità, sevizie. Niente urla, niente retorica, niente comizio. Solo semplice, banale, commovente umanità, umanità delle vittime e umanità persino degli aguzzini, raccattata e raccontata nel luogo più improbabile in cui penseresti di trovarla: la cella della morte di un carcere cinese. Insomma, la pena di morte nella sua nuda e pura normalità, senza orrori aggiunti, nella sua banalità quotidiana. Chissà se lo potranno vedere i cinesi. In settimana, ci anticipa il regista, che si è formato in Occidente ma ora vive e lavora in Cina, è comunque prevista una proiezione happening a Pechino.