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 2008  dicembre 01 Lunedì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

CORLEONE - Sono i figli del Boss dei Boss, il capo dei capi di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, classe 1933, da Corleone, detto Zu Binnu: 43 anni vissuti in clandestinità fino all´arresto del 2006, l´uomo accusato di essere dietro tutte le stragi di mafia che hanno insanguinato l´Italia. Ora per la prima volta i due figli di Provenzano, Angelo, 30 anni, diploma di geometra, e Francesco Paolo, 27, laureato in lingue, rompono il silenzio. Dicono che per parlare con i giornalisti non hanno ricevuto il «permesso» del padre, da sempre contrario ai contatti con la stampa; dicono che è una loro scelta, e che lo fanno per liberarsi, una volta e per tutte, dalle pressioni dei media che scavano nella loro vita.
Vostro padre è accusato di aver guidato Cosa Nostra, di essere il mandante, insieme a Totò Riina, di delitti e di stragi. Per questo è in galera, dove sta scontando alcuni ergastoli proprio perché considerato il Padrino della mafia.
«Quando mio padre fu arrestato lo scoprii dalla radio», dice Angelo, che parla per tutti e due. «E quando andai su internet per avere conferma, restai interdetto: la foto che pubblicarono, confondendola con un altro arrestato, non era quella di mio padre. Ora, a tutti quelli che dicono che mio padre è il Padrino di Cosa Nostra, io dico che ci sono tanti Padrini. Arrestato uno ne spunta un altro. E parlando ancora di mafia in senso lato, io mi chiedo: lo Stato che ruolo ha ed ha avuto in tutti questi anni? Se andiamo indietro nel tempo ricordo stragi come quelle di Bologna e di Ustica oppure la morte del bandito Giuliano. Cosa c´era dietro? Per la morte di Giuliano, per esempio, sono dovuti passare almeno cinquant´anni per fare un po´ di chiarezza. Dobbiamo aspettare altri 50 anni per conoscere le altre verità, anche quella su mio padre? Ecco perché dare una definizione compiuta di mafia adesso è difficile».
La mafia è soprattutto un´organizzazione criminale.
«La mafia? Siamo ancora oggi alla ricerca di una risposta definitiva su che cosa sia. Di primo acchito mi verrebbe da dire che è un atteggiamento mentale. La mafia viene dopo la mafiosità, che non è comportamento solo ed esclusivamente siciliano. La mafiosità si manifesta in mille modi, a cominciare dalla raccomandazione per arrivare prima a fare una radiografia o ad avere un certificato in Comune. Mi chiedo: dov´è il limite, tra mafia e mafiosità? Tra l´organizzazione criminale per come la intende il codice penale, e l´atteggiamento mentale per come la intendono i siciliani? Secondo me la mafia è un magma fluido che non ha contorni definiti. Per quanto riguarda i fatti di sangue e le sentenze di condanna, il codice dice che la mafia è un´associazione per delinquere. E su questo non discuto e non entro nel merito. Ma il discorso è molto più ampio, non si può ridurre tutto a persone che sparano».
Suo padre ha battuto tutti i record della latitanza: sin da giovane, prima che voi nasceste, era già un pregiudicato, accusato di omicidi e di far parte dei corleonesi mafiosi.
«Si è detto che mio padre, in 43 anni di latitanza, quale capo di Cosa Nostra ha bloccato il sistema, l´economia, la crescita di un Paese. stato dipinto come la personificazione del "male assoluto". Con la sua cattura, ho letto, finiva la mafia. E invece la mafia non è finita. La "mitizzazione" di papà esiste, è un dato incontrovertibile, che ha fatto comodo a molti. Se la latitanza fosse durata un anno anziché 43 il personaggio Provenzano non sarebbe esistito. Avrebbero trovato qualcun altro su cui scaricare l´attenzione per non sollevare coperchi su problemi e sui grandi misteri dell´Italia».
Tutti i pentiti di mafia, anche quelli che vi hanno preso parte materialmente, accusano i vertici di Cosa nostra e quindi Totò Riina ed anche suo padre delle stragi Falcone e Borsellino.
«Guardi, dei pentiti ci sarebbe tantissimo da dire, ma sono cosciente che anche la più lontana sfumatura si presterebbe a strumentalizzazione o verrebbe interpretata come una minaccia. E allora facciamo così: se a parlare è Angelo Provenzano, non dico nulla. Se a parlare è Angelo, cittadino italiano, dico che i pentiti sono una delle più grandi sconfitte dello Stato».
Le chiedevo delle responsabilità di suo padre.
«Io allora ero relativamente piccolo, l´ho vissuta di riflesso. Se mi ci soffermo ora credo che i giudici Falcone e Borsellino sono da considerarsi due vittime sacrificali, giudici immolati sull´altare della ragion di Stato».
I giudici Falcone e Borsellino sono prima di tutto vittime della mafia. E lei non ha nulla da rimproverare a suo padre? Non si è mai posto delle domande su chi fosse, chi è veramente suo padre? Lo ha mai chiesto a sua madre?
«Io a mio padre riconosco alcune attenuanti. Per questo non ho da rimproverargli alcunché. Chi sono io? Semplicemente il figlio di mio padre, io esisto perché lui esiste, è lui che mi ha messo al mondo».
Un magistrato, tempo fa, invitò la figlia di Totò Riina a rinnegare suo padre: non crede anche lei che sarebbe giusto farlo?
«Ma come si fa solo a pensare una cosa del genere? Bernardo Provenzano è mio padre, e allora? Basta questo per essere considerato un cittadino, un figlio, di serie B? Non è giusto. Io rispondo delle mie scelte, non di quelle di mio padre che oltretutto non so quali siano e quali siano state. E poi chi ve lo dice che non abbiamo mai parlato con mia madre di mio padre, che non le abbiamo chiesto qualcosa? Diciamo che in linea di massima mi sono tenuto le mie curiosità, domande dirette mai. Però, è innegabile che poi anche noi abbiamo indagato un po´. Ma Bernardo Provenzano era, e resta, mio padre».
All´interno di Cosa nostra c´è chi sostiene che suo padre abbia "trattato" con lo Stato, attraverso l´ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, poi condannato per mafia, per consegnare Totò Riina ai carabinieri.
«Io posso rispondere delle mie scelte, non di quelle di mio padre, che non so quali siano perché con lui mai ho affrontato simili questioni. Ma a una domanda così posta mi viene da sorridere, poiché se fosse come dice lei non si spiegherebbe perché poi lo Stato lo arresta e lo mette in prigione con il 41 bis».
Come avete vissuto il vostro ritorno a Corleone? E perché avete deciso di tornare?
«Io qui ci sono nato, non l´ho scelto. un paese come qualsiasi altro paese, siciliano e non. Pregi e difetti dei paesi: talvolta c´è una visione ristretta delle cose, una sorta di chiusura mentale. Per il resto, però, Corleone è Corleone. Ci stiamo bene. Chissà, magari al momento opportuno, a determinate condizioni, potremmo anche decidere di andare via. Il nostro ritorno? Sotto controllo. Io, mio fratello, mia madre, siamo in assoluto le persone più controllate d´Italia, se si pensa alla durata della latitanza di mio padre. Sanno tutto di noi, controllavano (o controllano) ogni ambiente, ogni spazio, in camera da pranzo, in macchina, al bagno, alle finestre. Abbiamo vissuto, e viviamo, come se fossimo dei concorrenti del Grande Fratello. Se vogliamo sdrammatizzare, diciamo che siamo stati i protagonisti del più grosso reality su Cosa Nostra. Se ci controllano ancora, non lo sappiamo. Di certo noi ci comportiamo e ci comporteremo sempre come se lo fossimo».
A dire il vero fino a sedici anni lei e suo fratello più piccolo siete stati "latitanti" anche voi con vostro padre e vostra madre.
«Dei miei primi sedici anni, vissuti in clandestinità, non voglio parlare. Non per omertà o perché devo custodire chissà quali segreti ma perché quello è un periodo della mia vita che resta mio perché mai nessuno me lo ha toccato. Il 5 aprile 1992, quando sono uscito dalla clandestinità e sono andato a Corleone, è iniziata la mia crescita, dopo avere vissuto la latitanza sono entrato in contatto con la gente. Ovviamente è stato difficile l´inserimento nella cosiddetta società civile. La mia vita prima? Ripeto. Non ho potuto scegliere, è stata una latitanza forzata, sono nato e cresciuto in quel contesto».
Perché dopo tanti anni di silenzio vi siete decisi a parlare?
«Ho accettato di rilasciare l´intervista anche per una sorta di crisi d´identità nei confronti di questo Stato, che prima dava la caccia a mio padre sostenendo che era la causa di tutti i mali e che con la sua cattura la mafia sarebbe stata finalmente sconfitta; dopo il suo arresto, invece, le cose continuano ad essere come prima. La mafia c´è ancora. Mi viene il dubbio che papà, pur con le responsabilità che i tribunali hanno ritenuto di riconoscergli, fosse stato fatto diventare una sorta di coperchio su cui scaricare tutti i mali».
Che cosa vuol dire? Lei non può permettersi di lanciare delle accuse generiche senza sostanziarle.
«Io chiedo solo un po´ di rispetto per me, mia madre, mio fratello. Allo Stato chiedo anche il rispetto di quello che è scritto nelle aule di giustizia e cioè che la legge è uguale per tutti. vero, noi portiamo un cognome pesante, ma è per questo che cerchiamo sempre di farci conoscere con il nome, non con il cognome. Io, per esempio, mi presento sempre come Angelo, e solo se c´è bisogno aggiungo il resto. Non solo professionalmente, noi vogliamo farci apprezzare, o farci dire di no, in base a quello che siamo, non per la famiglia da cui proveniamo. Non abbiamo paura: non l´avevamo prima, non l´abbiamo adesso. Noi famiglia Provenzano vogliamo solo essere lasciati in pace. Il nostro disagio è quello di essere personaggi pubblici senza alcun merito. Io non ho avuto la possibilità di scegliere. Si continuano a pubblicare lettere intime di mio padre, lettere mie e di mia madre, per questioni che non hanno nulla a che fare con la mafia. Se io infrango la legge, è giusto che paghi. Se sui giornali finiscono atti coperti dal segreto istruttorio, non paga mai nessuno».
La vicenda di suo padre è diventata anche una fiction tv.
«Non l´ho vista, se non a tratti. Me l´hanno raccontata. Possono fare quello che vogliono, anche perché la fiction è su mio padre, non su di noi. quando invadono la nostra sfera che stiamo male».
Signor Provenzano, lei vota?
«Noi non votiamo, e poi non parliamo di politica, come non parliamo di religione, perché mezza parola potrebbe essere strumentalizzata in un senso o in un altro».

LA STAMPA 1/12/2008
FRANCESCO LA LICATA
C’è sempre una prima volta. Per tutti, anche per i figli del Padrino. E così ce li ritroviamo sul divano dello studio dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, i due rampolli di don Binnu Provenzano. Angelo e Francesco Paolo accettano il colloquio, dopo anni di ostinato rifiuto ai giornalisti, con la sola eccezione di una breve comparsa in un documentario della Bbc proibito al mercato italiano. Angelo ha 33 anni, è iscritto a scienza della comunicazione ma non ha troppo tempo da dedicare allo studio, ora che deve fare il capofamiglia. Francesco ne ha 26 di anni, è laureato in Lettere e faceva il lettore in un liceo della Germania che gli ha rescisso il contratto quando si è saputo di chi è figlio. Sono diversi, i fratelli: il grande è la fotocopia del padre, compresa una certa attitudine nel risultare accattivante. Francesco somiglia più alla madre e, almeno da come si martirizza coi denti i polpastrelli delle mani, tradisce l’età più verde e una emotività più problematica.
Attenzione morbosa

 Angelo a condurre il colloquio, lui è stato determinante nella scelta di uscire allo scoperto e accettare il confronto con la realtà che li circonda. Comprensibilmente sceglie la strategia dell’attacco, come accade a chi sa che dovrà molto difendersi. «Io penso che con noi si è passato il limite. Capisco la necessità dell’informazione, il diritto di cronaca e tutto quello che sappiamo, ma non posso giustificare tutta l’attenzione morbosa scatenatasi nei nostri confronti. Passi per quando mio padre era latitante e ci controllavano notte e giorno e i giornalisti non ci mollavano un minuto e ci prendevano le impronte a noi bambini. Ma ora che mio padre è stato arrestato crediamo di poter rivendicare il diritto a vivere come ogni altro cittadino».
E invece? «Invece mi trovo, ci troviamo, al centro di un gossip continuo. Si continuano a pubblicare lettere intime di mio padre, lettere mie e di mia madre che nulla hanno a che fare con le indagini sulla mafia e, dunque, col diritto di cronaca. Se infrango la legge è giusto che mi si dedichi attenzione, qui invece la legge viene infranta da altri visto che i documenti pubblicati sono atti riservati, addirittura al di fuori dei processi. Da dove escono? E perchè si tollera la pubblicazione?».
Sotto i riflettori

Proviamo a introdurre il concetto di personaggio pubblico? «Ma noi, noi figli di Provenzano veniamo trattati come i protagonisti di un gossip infinito, senza essere né Vip né persone che hanno scelto di stare sotto i riflettori. Non ho battuto nessun record, non faccio cinema né teatro, non ho fatto nessuna scoperta eclatante eppure mi trovo al centro dell’attenzione, personaggio pubblico senza alcun merito e senza possibilità di scelta». E’ accorata, la protesta e se cerchi di spiegare che in Italia sono caduti governi per il gossip, lui serafico risponde: «E’ la controprova che il sistema funziona male». Replichiamo che forse tanta è l’attenzione perchè enorme è stato il danno provocato dall’organizzazione che si vuole diretta dal padre. «Capisco - dice Angelo - e per queste problematiche mio padre si trova in carcere. Ma noi? Fino a quando ci chiederanno di pagare il conto anche a noi?». Ma siete stati in latitanza con lui, voi e vostra madre. Angelo si irrigidisce: «Eravamo piccoli. Di quel periodo non voglio parlare, non perché abbia qualcosa da nascondere. Ero piccolo e non ho fatto io certe scelte. Posso rispondere dai sedici anni in poi, dal 5 aprile 1992, quando siamo rientrati a Corleone, nella società, e mi sono dovuto confrontare coi miei simili. Quella prima era stata una latitanza forzata, sono nato e cresciuto in cattività. Non esiste il reato di recidività familiare».
Cosa pensa di quelli che chiedono ai figli dei boss di rinnegare il proprio padre? «Ma come si fa soltanto a pensare una cosa del genere? Bernardo Provenzano è mio padre, e allora? Basta questo per essere considerato un cittadino di serie B?». Ha un’idea della mafia? «Mi sento in crisi di identità nei confronti di uno Stato che presenta mio padre come la causa di tutti i mali, un cancro da estirpare per salvare il mondo. Poi vedo che lo arrestano ma tutto continua praticamente come prima. A quelli che indicano mio padre come il ”Padrino” di Cosa nostra ricordo che ci sono tanti padrini, tolto uno ne arriva un altro e un altro ancora e allora penso che forse Provenzano era solo un coperchio che nascondeva altro».
La vita a Corleone

Come vivete a Corleone? «Non so adesso, ma siamo stati in assoluto le persone più controllate del mondo. Abbiamo vissuto come concorrenti del Grande Fratello, spiati in continuazione. Se vogliamo sdrammatizzare, diciamo che siamo stati i protagonisti del più grande reality su Cosa nostra. Cosa chiedo allo Stato? Un po’ di rispetto per mia madre, per me e per mio fratello, dopo che in passato sono venuti persino a chiederci di tradirlo, ”vi faremo ricchi”, dicevano. Alla gente non chiedo nulla, a certa antimafia di lasciarci in pace». E subito gli fa eco Francesco: «Ho vinto una borsa di studio per insegnare in Germania, me l’hanno tolta perché qualcuno ha detto che non potevo rappresentare l’Italia all’estero. Come se fossi stato l’ambasciatore». E le fiction su suo padre? «Non ho avuto la forza di seguirle, me le raccontano. Comunque riguardano mio padre e non invadono la nostra sfera personale, anche se le sue storie si riversano su di noi. Ogni attività che mi accingo a fare, infatti, viene osteggiata perché ”frutto del riciclaggio dei beni illecitamente conseguiti”. Mi chiedo quando potrò avere una mia vita autonoma. Adesso vendo vino e mio fratello lavora in una società di import-export. Così campiamo, senza i miliardi di cui si favoleggia».
Morti e lupare

Ma insomma, questa benedetta mafia? «Sono alla ricerca di una risposta. Certo non può essere solo una storia di morti e lupare: per il codice è un’organizzazione a delinquere, poi però c’è la mafiosità, e dentro c’è di tutto, un magma indefinito». Perché sono morti Falcone e Borsellino? Angelo si ferma a pensare, poi: «Ero piccolo, ha vissuto quei momenti di riflesso. Se ci penso ora dico che quei giudici forse sono stati l’agnello sacrificale immolati sull’altare della Ragion di Stato». Ci andate a votare? «No e non parliamo neppure di religione perchè mezza parola potrebbe essere strumentalizzata e fraintesa». Provenzano è stato indicato anche come l’uomo che ha trattato con lo Stato, che ha consegnato Riina. Sorride, Angelo: «Mio padre è in carcere e al 41 bis, non mi sembra un posto dove stanno i mediatori».
I figli di Riina

Ricorda qualche momento di felicità? «La felicità è un’utopia, quell’intervallo di tempo in cui non si è infelici». Starà sempre a Corleone? «Se si verificheranno certe aspettative, potrei anche andarmene». Spera nella liberazione di suo padre? «E chi lo sa?». Opinione diffusa è che i figli di Provenzano siano altra cosa rispetto, per esempio, ai figli di Riina. «Non amo fare paragoni, sono giochi che lascio a voi giornalisti. Dico solo che col figlio piccolo di Riina andavamo a scuola insieme, a Corleone». E i pentiti? «Come Angelo Provenzano a questa domanda non rispondo perché sarei frainteso. Come cittadino dico che sono la sconfitta dello Stato».