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 2008  dicembre 01 Lunedì calendario

Sarò breve nel porre la domanda per dare spazio alla risposta: quale fu la ricetta del regime alla grande crisi del 1929? Quale fu la mente? Funzionò? L’Italia come ne uscì? Francesco Bonaccurso catullo@hotmail

Sarò breve nel porre la domanda per dare spazio alla risposta: quale fu la ricetta del regime alla grande crisi del 1929? Quale fu la mente? Funzionò? L’Italia come ne uscì? Francesco Bonaccurso catullo@hotmail.com Caro Bonaccurso, In un articolo recente ( La Stampa del 18 novembre) Giorgio La Malfa ha ricordato che la crisi italiana cominciò nel 1931, due anni dopo il crollo di Wall Street, e investì anzitutto le banche. La migliore descrizione del fenomeno è probabilmente quella che ne dette Raffaele Mattioli, allora alla guida della Banca Commerciale Italiana: «Alla vigilia della crisi (...) la struttura delle grandi banche italiane di credito ordinario aveva subito trasformazioni o meglio deformazioni. Il grosso del credito erogato era fornito a un ristretto numero di aziende, un centinaio, che con quell’aiuto avevano potuto svilupparsi notevolmente, ma che ne dipendevano ormai al punto di non poterne fare a meno. La fisiologica simbiosi si era mutata in una mostruosa fratellanza siamese. La banche erano ancora "miste" sotto l’aspetto formale, ma nella sostanza erano divenute "banques d’affaires" (in inglese "investment banks" ndr), istituti di credito mobiliare legati a filo doppio alle sorti delle industrie del loro gruppo». Quando l’onda della crisi attraversò l’Atlantico e colpì larghi settori dell’industria italiana, le banche constatarono che i loro crediti non valevano più nulla e si rivolsero alla Banca d’Italia che rispose immediatamente all’appello, ma fu trascinata a sua volta nel marasma. Fu questo il momento in cui Alberto Beneduce (di cui ho parlato su questa pagina qualche mese fa) presentò a Mussolini un piano per il salvataggio dell’economia nazionale. Fu costituito l’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale) a cui venne data la possibilità di rilevare i portafogli azionari delle imprese dalle banche maggiori (Comit, Credito Italiano, Banca di Roma) e di finanziare queste ultime con un credito ventennale che le mise in condizione di riprendere la loro attività. Subito dopo Beneduce salvò la Banca d’Italia prendendo a suo carico i debiti contratti dalle imprese con l’istituto centrale. Fu così che lo Stato divenne proprietario, attraverso l’Iri, di una buona parte del sistema e di alcune fra le maggiori aziende del Paese. Dopo avere risanato le banche e salvato le imprese, il governo poté dedicarsi all’economia reale e lo fece con un New Deal non molto diverso da quello che Roosevelt realizzò negli Stati Uniti, Hitler in Germania e Stalin, in circostanze politiche alquanto diverse, nella Unione Sovietica: bonifiche e lavori pubblici su grande scala. Appartengono al New Deal italiano le città nuove che vennero costruite durante gli anni Trenta: Littoria (ora Latina) nel 1932, Sabaudia nel 1934, Aprilia nel 1936, Guidonia nel 1937, Carbonia nel 1938, Pomezia nel 1939. Fu costruita una camionale fra Genova e Serravalle (inaugurata nell’ottobre del 1935), furono aperte o rafforzate alcune linee ferroviarie, furono realizzati alcuni discutibili rinnovamenti urbanistici e fu avviata, durante il governatorato di Italo Balbo, la colonizzazione della Libia. Anche il riarmo e le guerre (dall’Etiopia alla Spagna) fecero parte, per molti aspetti, del New Deal italiano, ma con effetti e ricadute che segnarono il declino e la morte del regime. Ho usato la parola New Deal, caro Bonaccurso, perché l’espressione, raramente tradotta in italiano, evoca l’immagine di una partita a carte giocata con un nuovo mazzo o, se preferisce, di una nuova distribuzione delle carte a tutti i membri di una società nazionale. esattamente ciò che accadde, con singolare parallelismo, in buona parte dei Paesi colpiti dalla crisi del 1929.