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 2008  novembre 30 Domenica calendario

Non puoi dire di conoscere davvero Lucio Dalla se non sei entrato almeno una volta, con tutto lo stupore del caso, in quella che lui chiama la «stanza dello scemo», ma che è invece molto di più, il bunker della sua follia deviata, la tana dove si congiunge e fa bisboccia con i suoi veri simili, che sono puppets schizoidi, marionette caricate a molla, automi, orsacchiotti, giostrine e trenini meccanici, nell’insieme l’incubo animato di un giocattolaio pazzo

Non puoi dire di conoscere davvero Lucio Dalla se non sei entrato almeno una volta, con tutto lo stupore del caso, in quella che lui chiama la «stanza dello scemo», ma che è invece molto di più, il bunker della sua follia deviata, la tana dove si congiunge e fa bisboccia con i suoi veri simili, che sono puppets schizoidi, marionette caricate a molla, automi, orsacchiotti, giostrine e trenini meccanici, nell’insieme l’incubo animato di un giocattolaio pazzo. Pensi, ora apro la porta e dietro ci trovo Tim Burton alla macchina da presa o i resti di due vergini smembrate. Ci trovi invece Marco Alemanno, l’ultimo annusato talento di Lucio, giovane attore shakespeariano, nel mood e nel teschio da monologo amletico che sta nella mano anche quando non sta. Con la complicità di Elisabetta Sgarbi, Bompiani, i due hanno raccolto e pubblicato «Gli occhi di Lucio», una delizia assortita di suoni, immagini e testo. Imperversante folletto Lucio e la sua parrucca gialla, nella casa bolognese di duemila metri quadri su due piani in un palazzo del Quattrocento in pieno centro, dietro Porta Maggiore. L’incrocio tra un luna-park e una galleria d’arte, dove il rifiuto di crescere di questo inverosimile sessantacinquenne è visibile ovunque, tra la stanza dei giochi e quella del cinematografo, nelle decine di presepi, babbi e alberi. E’ il Natale la passione atavica di questo omarino che canta infatti «Sarà tre volte Natale e festa tutto l’anno», capace di estrarre dalla sua cassa toracica qualunque suono, acuti da tenore, versi da gabbiano, squittii, borborigmi, pop accattivante. C’è posto per tutto e per tutti nella casa di Dalla, la tela preziosa di Franz Von Stuck e la coperta rossa con la faccia di Lenin, il merlo parlante che canta «Caruso», ma solo quando gli gira e Tina che lo governa da trent’anni e sembra uscita da un film di Disney, le foto di Trockij ma anche quelle degli zar, il suo alter ego Benvenuto Cellini e migliaia di altri memorabilia. La musica sempre accesa. Miles Davis nello sfondo e carillon che partono da ogni anfratto. Visto in controluce, Lucio, ha qualcosa di marziano. Il confine tra la patologia e il genio è spesso labile. «Avevo undici anni quando mia madre, donna strana, una stilista che non sapeva mettere un bottone, mi portò in un istituto psicotecnico di Bologna per un test sulle mie attitudini. Risultò che ero un mezzo deficiente» E invece era una specie di genio. «Mia madre lo sospettava e infatti mi lasciò, quindicenne, libero di partire per Roma». Galeotto fu il clarinetto. «Presi a suonarlo, anche bene, non sapendo una nota di musica. Da lì, tutto discende e precipita. Mi ritrovai giovanissimo a suonare con Chet Baker e a giocare a flipper con Andy Warhol, io destro, lui mancino». Suonava jazz con Pupi Avati. «Mi voleva uccidere. Questo sedicenne che andò a suonare nella sua band lo inibì. Si sentiva inspiegabilmente meno bravo. Racconta lui che, quella volta che mi portò a Barcellona sulla Sagrada Familia, ebbe la tentazione di buttarmi di sotto». Un rapporto speciale con Torino. «I miei più grandi concerti. Ricordo il mio esordio assoluto al ”Le Roi”, una balera di due fratelli che gestivano con gli stessi criteri un’impresa di pompe funebri». Era un disadattato senza calzini. «I due fratelli s’incazzarono: la prossima volta che vieni senza ti cacciamo. Una sera me li dimenticai e mi pitturai i piedi così da farli sembrare dei calzini». Lucio dove va? Va ovunque desidera. Spaventoso realizzare i propri desideri, a meno che non ti chiami Lucio e riparti ogni volta in una direzione diversa. «All’epoca, mi sentivo un maudit, snobbavo la canzonetta. Mi sarei ucciso alla sola idea che sarei potuto diventare un idolo pop. Fu Gino Paoli a convincermi». All’inizio la bersagliavano di frutta e verdura. «A Salerno, un anziano mi centrò in pieno torace con una mela, facendomi un male cane. Era l’anno in cui debuttai a Sanremo con ”Paff Bum”, una pazzia futurista. Costrinsi un corista di Nora Orlandi a fischiare dietro di me». Il suicidio del suo amico Tenco. Macabro ma vero, lei cantava quell’anno a Sanremo «Bisogna saper perdere». «Mai capito cosa accadde. Luigi sembrava l’uomo più lontano dall’idea del suicidio. Andammo insieme allegri a Sanremo, ci prendemmo anche in giro per l’eliminazione. Sono stato così male che ho rimosso la cosa in modo definitivo…». Poi venne Gesù Bambino a Sanremo. «La rivelazione. Mi sentii per la prima volta amato dalla gente e desideroso a mia volta di amarla. Cantavo già da quattro anni, ma capii solo allora quanta gioia potevo regalare con le mie canzoni». Chico Buarque la tradusse in portoghese. «Gliela cantai in un ristorante a Campo de’ Fiori. Si mise a piangere a dirotto. Tornò in Brasile e ne fece la sua versione. Un successo pazzesco». Il sodalizio con Roberto Roversi. «Con lui, tre dischi straordinari, che ora rifaremo masterizzati, insieme a un quarto cd di inediti. Roversi è stato la mia scuola, la mia svolta artistica. Con lui ho imparato a cercare il meglio dentro di me, la libertà dalle regole, oltre il decalogo del paroliere». Ha cominciato a scrivere da sé i testi delle sue canzoni. «Ho dovuto farlo. ”Come è profondo il mare”, la mia prima. Oggi mi sento più scrittore che musicista. Preferisco ascoltare la musica degli altri. Grazie al mio amico Alemanno, ho scoperto la musica nordeuropea, i Sigur Ros. Mi presero per un pazzo quella volta che feci irruzione nel loro spogliatoio con il mio pellicciotto urlando: ”You are like Mozart”». «Le rondini» è la mia preferita. «Ci metto anche Henna, forse il mio testo più bello. ”Caruso” ha venduto più di dieci milioni di copie ma non mi emoziona più di tanto. Aggiungerei ”Ciao” e ”Anidride solforosa” insieme a ”L’anno che verrà”». Qualcosa che resta coerente nel suo caos apparente. «Il mio rapporto con la gente. Che dura ormai da quasi cinquant’anni. Un altro dinosauro come me sarebbe stato ammazzato. E invece io continuo a stare dentro la gente, mi piace. Mi sento uno che esiste solo perché esistono gli altri». Ha suonato, cantato, recitato, fatto il clown, annusato talenti, insegnato all’università, ha fatto il gallerista, il regista d’opera, l’imprenditore culturale e l’organizzatore di eventi. «Ma il mio vero, grande sogno è la regia di un film. So che prima o poi si realizzerà anche questo. Considero la specializzazione una condanna che limita la conoscenza e favorisce la disoccupazione». Vitalità stupefacente. Mai intaccata da nulla? «I pochi momenti bui sono stati quando ho stravenduto i miei successi. ”Futura”, ”Caruso”, ”Canzone”, ”Attenti al lupo”. Per cinque, sei mesi, non mi sentivo più padrone della mia vita, libero di andare dove volevo». Lucio Dalla e il cantautorato italiano. «Mi piace solo De Gregori. Mi viene da piangere quando ascolto ”Santa Lucia” o la ”Donna Cannone”. Peccato che negli anni si sia così incupito, prima era un allegrone. Guccini? Mi riesce difficile ascoltarlo. Anche De Andrè... Capivo che era importante, lo stimavo, ma non mi ha mai coinvolto». Ci gioca parecchio con il suo corpo bizzarro. «Un regalo del cielo. Mai desiderato essere un altro. La parrucca bionda me la sono fatta fare dal mio amico Cesare Ragazzi, dopo il successo di ”Canzone”. Non potevo più camminare per la strada, vedermi il derby di basket in santa pace». L’hanno intercettata in una libreria di Roma che presentava il saggio di Diego Mondella su Paul Thomas Anderson. «Amo il cinema più della musica. Quando sono a Bologna, non vedo mai meno di un film al giorno. Stravedo per i fratelli Coen e tutto il cinema di Pasolini. ”Uccellacci e uccellini” è il film che ho visto di più, una ventina di volte. Considero ”Satyricon” il capolavoro di Fellini». Fellini veniva spesso ai suoi concerti. «Veniva e si addormentava in quinta. Stava preparando ”Ginger e Fred”. Fellini era un visionario con un profondo senso musicale. L’apparato della Chiesa lo ispirava più di ogni altra cosa». Le foto di Padre Pio sulle sue pareti? «Da giovane ero molto devoto di Padre Pio. Oggi credo nella bellezza del credere. La casualità non esiste. E’ una manifestazione del sacro». Vive a Bologna, una casa alle Tremiti e una sull’Etna. «Ma dove sto meglio è Napoli. La città dove la mia creatività si esalta». Il talento musicale di oggi. «Samuele Bersani. Sta preparando un grande disco». Il successore di Cofferati a Bologna. «Non ne ho idea. Posso solo dire che non sarò io».