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 2008  novembre 30 Domenica calendario

Elogio del purè

Elogio del comfort food, e del suo piatto-simbolo: il purè. In tempi di pochissima allegria economica, la polpa schiacciata e lavorata di patate e affini rappresenta la mirabile sintesi di un alimento che scalda il cuore e sconfigge l´appetito, senza appesantire il portafoglio. Perché il purè - in tutte le sue meravigliose varianti - comunica direttamente a stomaco e palato che tutto va bene, grazie a una messe di aggettivi rassicuranti: caldo, morbido, nutriente, setoso, aromatico, saziante, profumato. Tutto racchiuso in una golosa porzione fumante, servita direttamente dallo stesso cucchiaio di legno con cui è stato pazientemente rimestato. Magari fosse sempre così. Tradita la memoria del purè d´infanzia, armeggiamo con la scatola dei fiocchi di patate. Rapido e asettico, il purè del terzo millennio non ha nemmeno bisogno del latte: le istruzioni d´uso incoraggiano l´utilizzo dell´acqua, che abbatte le calorie finali senza troppo togliere alla cremosità del composto (merito degli emulsionanti). Eppure, da qualche parte il ricordo archetipico del purè rimane intatto. Immortalate nei libri di cucina, appena offuscate da qualche ditata inopportuna (che ne suggella il supporto provvidenziale, tra una grammatura dimenticata e un ingrediente da sostituire) le ricette dei purè regnano ancora sovrane. L´arrivo del freddo vero, dopo un autunno dalle temperature ondivaghe, insieme all´affacciarsi delle feste di fine anno, spinge nella medesima direzione: almeno una volta all´anno, se purè deve essere, che sia quello d´antàn, senza scorciatoie. Ma il Paese di Bengodi ha smarrito la cultura del cibo. Dalla "Boqueria" di Barcellona al Viktualienmarkt di Monaco, i grandi mercati alimentari del mondo esibiscono bancarelle interamente dedicate alle patate, esibite e vendute secondo varietà e utilizzo. Dieci, quindici tipologie diverse per colore, quantità di amido e di acqua, resistenza alla cottura, consistenza più o meno croccante, sapore. Da noi, difficilmente si va oltre la dualità bianche-gialle, nuove-vecchie. Non una parola sugli anti-germinativi, usati per evitare l´insorgenza dei germogli, segno ineluttabile di vecchiezza e di aumento della solanina, che ne mina la digeribilità. Nessuno spiega che andrebbero conservate al buio, al fresco, possibilmente sotto la sabbia, nella classica cassetta in un angolo della cantina, mentre sotto i dieci gradi si innesca la trasformazione degli amidi in zuccheri (niente è peggio di un purè dal sapore dolciastro). Quanto alla cucina degli avanzi, sarebbe meglio evitare, perché già il giorno dopo la cottura la dispettosa solanina dilaga. Scelte le patate, le diverse scuole di pensiero culinario dettano gli ingredienti a supporto: brodo o latte per la cottura, burro, panna, tuorlo d´uovo, formaggi vari per la rifinitura, fruste e cucchiai per la lavorazione. Il resto è nelle mani del cuoco. Il più (apparentemente) semplice dei contorni, infatti, gode di esecuzioni mirabili, a partire dal sontuoso super-purè di Joel Robouchon, dove il burro quasi impatta in quantità la dose delle patate. E poi il cremoso e fragrante capolavoro di Michel Bras, che monta il suo "aligot", purè tradizionale dell´altipiano dell´Aubrac, con la squisita toma d´alpeggio Laguiole. La versione mediterranea di Fulvio Pierangelini, lavorata con l´extravergine. E quello storico, ideato da Ferran Adrià, passato nel sifone per renderlo aereo e spumoso. Se siete tentati dall´esecuzione d´autore ma non vi sentite all´altezza, fate come Massimo Bottura e Gennaro Esposito: patate, extravergine e qualche grano di sale grosso per una schiacciata calda e corroborante, allenamento perfetto in attesa del cotechino. *** Quando, negli anni Quaranta del Sedicesimo secolo, i conquistadores spagnoli scoprirono la patata in Perù e la introdussero in Europa, lo sconosciuto tubero suscitò generale diffidenza. Non pareva cibo da uomini, ma piuttosto da animali. Per un paio di secoli i contadini europei si rifiutarono di coltivarlo, e quando mutarono atteggiamento fu più per necessità che per scelta, di fronte alla constatazione che il rendimento della patata era altissimo rispetto a quello delle colture tradizionali, e che poteva risolvere un problema che si poneva allora, drammaticamente, all´attenzione di tutti: si chiamava fame. La coincidenza è impressionante: in tutte le regioni europee, la coltivazione delle patate inizia sempre in coincidenza con anni di carestia. Nel 1778 l´agronomo riminese Giovanni Battarra le raccomanda come mezzo per vincere la fame contadina, con una considerazione che non nasconde gli antichi pregiudizi: le patate, scrive, «sono un ottimo cibo per gli uomini non meno che per le bestie». La patata fu il cibo di emergenza in una situazione di emergenza: fra Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, l´aumento progressivo della popolazione europea mise a dura prova il sistema sociale ed economico, che "tenne" solo a costo di un generale peggioramento qualitativo e di una pericolosa semplificazione della dieta contadina. Era anche, e soprattutto, un problema di disparità sociale. Mentre i cibi di qualità continuavano a indirizzarsi ai mercati urbani e alle mense borghesi e aristocratiche, ai contadini si lasciavano i prodotti di alta resa, come il mais o la patata, in grado di riempire e di sfamare - nel senso letterale di «combattere lo stimolo della fame», senza troppo preoccuparsi della bontà o dell´equilibrio della dieta. Nelle regioni mediterranee, il ruolo prepotente assunto dalla polenta di mais (che fece piazza pulita di molti cibi e preparazioni tradizionali) provocò terribili epidemie di pellagra, una tipica malattia da malnutrizione. Diversi, ma altrettanto devastanti furono i risultati della dipendenza totale dalla patata che l´alimentazione contadina assunse in certi paesi del nord Europa: in Irlanda, tra il 1845 e il 1846, due raccolti di patate andati a male furono sufficienti per annientare una società contadina che sventuratamente aveva basato su quel prodotto (solo su quel prodotto) il suo sistema di sopravvivenza. Un terzo della popolazione fu falcidiata dalla fame e dalle malattie infettive, o costretta a emigrare oltre oceano. Con tali premesse, si capisce come la patata abbia faticato a conquistarsi un ruolo propriamente gastronomico nel sistema alimentare europeo. Alla fine del Diciannovesimo secolo essa pare essersi affrancata del suo marchio originario di cibo povero, buono solo a riempire stomaci affamati. Pellegrino Artusi, nelle diverse edizioni della sua Scienza in cucina, pubblicate a iniziare dal 1891, comprende parecchie ricette di patate finemente manipolate, a uso della borghesia benestante dell´Italia recentemente unita. Rosolate nel burro o fritte in olio, schiacciate in purè o inframmezzate di tartufi, le patate paiono definitivamente assunte negli usi culinari dei ceti medio-alti della società. Ma quando Artusi propone l´Insalata di patate sente ancora il bisogno di giustificarne l´impiego: «Benché si tratti di patate», scrive, «vi dico che questo piatto, nella sua modestia, è degno di essere elogiato». Benché si tratti di patate. Nella storia delle pratiche alimentari, necessità e piacere viaggiano talvolta separati, ma spesso incrociano le loro strade.