Sergio Romano, Corriere della Sera 30/11/2008, 30 novembre 2008
Con la crisi economica il problema riguardante la bocciatura del Trattato di Lisbona da parte dell’Irlanda sembra sia passato in secondo piano
Con la crisi economica il problema riguardante la bocciatura del Trattato di Lisbona da parte dell’Irlanda sembra sia passato in secondo piano. Che cosa sta accadendo? E quale sarebbe l’eventuale soluzione per uscire da questo vicolo cieco? Valerio Modoni valerio.modoni@virgilio.it Caro Modoni, La crisi del credito e la recessione hanno effettivamente oscurato la questione del Trattato di Lisbona, ratificato dalla grande maggioranza dei membri dell’Unione ma bocciato dal referendum irlandese, soggetto all’esame di due corti costituzionali (quelle della Repubblica federale e della Repubblica Ceca) e approvato dal Parlamento polacco con una legge che attende ancora la firma del presidente Lech Kaczynski. Eppure la situazione sembra, per qualche aspetto, più promettente di quanto fosse all’indomani del no di Dublino. All’Irlanda è stato chiesto di far sapere al vertice europeo di dicembre quale strada intenda percorrere nei mesi successivi per ratificare il trattato. Le insistenze vengono soprattutto dalla Francia a cui preme dimostrare, prima della fine del semestre, che la presidenza di Sarkozy non terminerà, su questo punto, con un nulla di fatto. Ignoriamo i progetti del governo di Dublino, ma sappiamo che la crisi finanziaria ed economica ha aperto gli occhi di molti irlandesi. Il Paese si è reso conto della sua fragilità e ha compreso che soltanto l’adesione all’euro, il primo gennaio del 1999, gli ha risparmiato effetti più gravi di quelli che hanno colpito la sua finanza dopo il fallimento di Lehmann Brothers e il crollo delle Borse. La situazione della Germania e quella della Repubblica Ceca sono alquanto diverse. La Corte costituzionale tedesca è molto attenta ai diritti tutelati dalla Grundgesetz (la Carta della Repubblica federale), ma il Trattato di Lisbona, approvato dal Parlamento e fermamente voluto dal cancelliere Angela Merkel, non dovrebbe suggerirle, in questa materia, alcuna riserva. Il caso ceco e quello polacco presentano invece maggiori difficoltà. La Repubblica Ceca ha un capo dello Stato, Vaclav Klaus, che non perde occasione per manifestare il suo euroscetticismo e rifiuterà di innalzare la bandiera dell’Ue sulla facciata del Castello di Praga quando il suo Paese, nel primo semestre del 2009, sarà presidente di turno. Sulla strada della ratifica esistono quindi a Praga due ostacoli: il parere della Corte e la firma del capo dello Stato. A Varsavia, invece, il problema è soltanto la firma di Kaczynski, un uomo politico che non ha mai nascosto la sua ostilità all’integrazione europea e non ha ancora digerito il compromesso sul sistema di voto accettato da un precedente governo polacco. Ma anche in Polonia e nella Repubblica Ceca la crisi del credito ha dimostrato che i Paesi del vecchio blocco sovietico hanno bisogno dell’Europa e delle sue istituzioni. Gli euroscettici di Praga e di Varsavia si sono serviti del no irlandese per ritardare il processo di ratifica e sperano ancora che l’Irlanda li tolga dall’imbarazzo di essere considerati i becchini del Trattato di Lisbona. Ma se il governo di Dublino riuscirà a sbloccare la situazione saranno probabilmente costretti ad allinearsi. Un’ultima osservazione, caro Modoni. La risposta europea alla crisi è stata meno unitaria di quanto avessi sperato, e la responsabilità, malauguratamente, è in buona parte di Angela Merkel, preoccupata dal timore che la Germania fosse chiamata a pagare anche per i peccati degli altri. Ma le iniziative di Sarkozy, il vertice di Washington, il coordinamento delle politiche finanziarie e il piano anti-crisi della Commissione di Bruxelles hanno reso l’Europa più visibile e, tutto sommato, più efficace. Se la crisi può servire all’Unione, ben venga la crisi.