Maria Corbi, La Stampa 29/11/2008, 29 novembre 2008
Curtis Edward McCarthy entra nei musei capitolini, scatta fotografie alla Lupa, al Marco Aurelio, scarpe da ginnastica e jeans
Curtis Edward McCarthy entra nei musei capitolini, scatta fotografie alla Lupa, al Marco Aurelio, scarpe da ginnastica e jeans. Sembra uno dei mille turisti americani che affollano Roma. Ma lui non è un turista come gli altri, è un simbolo, un «wrestler», come dice lui. Contro la pena di morte, lui che di anni nel braccio dei senza speranza, nel carcere americano di Oklahoma city, di anni ne ha passati 22. Per stupro e omicidio. «Mai commessi». Un anno e mezzo fa la libertà dopo che l’Fbi indagando su un caso di corruzione nella polizia ha portato alla luce anche le prove false costruite per incastrarlo. «Volevano un colpevole a tutti i costi», dice aggirandosi tra vasi e bighe romane. Lui, la vittima, una ragazza figlia di un poliziotto, la conosceva, e non c’erano altre piste. L’esperto della scientifica assicurò che i capelli e altri reperti biologici trovati sul luogo del delitto erano i suoi. E questo bastò a far ripetere alla corte tre volte la stessa sentenza: a morte. Poi si scoprì che in realtà i primi referti del perito lo scagionavano e che quando dovevano essere rivalutati erano misteriosamente scomparsi. Così Curtis a maggio 2007 rivede la luce. Letteralmente. «Il braccio della morte è costruito sottoterra e siamo sempre con le luci artificiali, solo 4 ore di aria a settimana, si fa per dire, perché il fazzoletto di cortile è coperto da una grata e quando piove non ci fanno uscire perché dicono che un fulmine potrebbe colpirci. Invece a ucciderci devono essere loro». Gli occhi sono fissi, Curtis sembra assorto in una pace irreale. Un bambino gli chiede: «Tu non li odi?». Curtis sorride, se quel leggero incresparsi degli angoli della bocca si può chiamare tale: «In carcere ero pieno di rabbia, ero consumato dall’odio fino a che ho capito che non potevo continuare così perché stavo diventando come loro. E anche una volta fuori per sentirmi libero dovevo smetterla di odiare». E infatti non c’è traccia di rabbia nei suoi modi, nelle sue parole, tutto è moderato, come compresso, o forse solo lontano. «Quando sono uscito mi sembrava di essere atterrato su un altro pianeta, era come se avessero tagliato la pellicola del film della mia vita. E il pezzo che mancava non lo avrei mai potuto riavere indietro. Fotogrammi importanti, come quel figlio, oggi trentenne, avuto ad appena 16 anni, la sorellina lasciata quando aveva solo pochi mesi, la malattia della madre, il lavoro, gli amici. «Mio padre era militare e ci ha cresciuti con la fiducia nella giustizia, nel sistema. Ed è quella fiducia che porta molti americani ad essere favorevoli alla pena di morte». Anche tu lo eri prima? «Sì, perché non sapevo. Oggi non ho più fiducia nella giustizia. Ritornare a quegli 8000 e passa giorni è un esercizio doloroso. «Vieni trattato brutalmente da persone che invece hanno giurato di fare cose buone». Ricorda Billy Fox, il suo compagno di cella ucciso con un’iniezione letale: «Penso a lui tutti i giorni, non credo più in niente ma prego con il cuore e con la mente». Ricorda Burquine a cui tutti loro, il giorno fissato per la sentenza, avevano regalato la razione di calmanti che spettava quotidianamente, «per tranquillizzarlo». «Invece lui si sentì male e il direttore del carcere lo fece prima curare e poi lo ha fatto ammazzare». Vicino a Curtis c’è una ragazza che lui definisce come «una buona amica». Non ce la fa a parlare di sentimenti. «Non riesci più a provare nulla dopo». Quando arriva il sindaco Gianni Alemanno gli stringe la mano e ascolta il messaggio contro la pena di morte che registra per l’apertura, oggi, della due giorni delle Città del mondo contro la pena di morte. Una iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, una mobilitazione in tutti e cinque i continenti, proprio alla vigilia del voto all’assemblea generale dell’Onu sulla risoluzione contro la pena di morte. «Quando ero nel braccio della morte ero contento di sapere che c’era gente che si batteva per noi, ma anche dispiaciuto che tutto questo arrivasse da fuori, dall’Europa». Impegno. dolore, ricordi, si mischiano in questa prima giornata romana di Curtis McCarthy. Qualcuno gli chiede della famiglia della vittima, se una volta uscito ha avuto un chiarimento. «No, loro ancora mi odiano, sono arrabbiati, non volevano che io uscissi. Non gli interessa la giustizia ma solo qualcuno con cui prendersela per il loro lutto». E il perito della polizia che ha costruito le prove false? «Si è ritirato ma non è in prigione». Risarcimenti? «Nemmeno il biglietto dell’autobus per tornare a casa». Sogni? «Ho smesso di sognare. Vivo per raccontare la mia storia».