Riccardo Barenghi, La Stampa 29/11/2008, 29 novembre 2008
Alle elezioni del 2006 aveva ottenuto solo il 2,2 per cento dei voti, due anni dopo ha raddoppiato prendendosi il 4,4
Alle elezioni del 2006 aveva ottenuto solo il 2,2 per cento dei voti, due anni dopo ha raddoppiato prendendosi il 4,4. E adesso, secondo i sondaggi ovviamente, avrebbe raddoppiato di nuovo: c’è chi gli attribuisce il 7,8 come l’istituto Ipr o chi, come l’Ipsos di Nando Pagnoncelli, lo accredita addirittura del 9,2 per cento: «Ed è così da un mese e mezzo, quel partito ormai si è piazzato stabilmente al nove per cento». Quel Partito si chiama Italia dei valori, altrimenti detto Antonio Di Pietro, ed è il nuovo fenomeno della politica italiana. Insieme alla Lega naturalmente, alla quale tutti i sondaggi attribuiscono almeno il 10 per cento dei consensi: «Sono i due partiti più radicali e più liberi, entrambi nelle loro coalizioni ma con una forte autonomia di proposta, di iniziativa e di presenza», spiega Pagnoncelli. Al contrario di quello di Bossi, il Partito di Di Pietro non ha un «suo» pezzo di Italia. Esclusi l’Abruzzo e il Molise, i suoi voti sono spalmati, «abbiamo lo stesso numero di elettori a Canicattì e a Mondovì», racconta il leader. «Io ho costruito un Partito dal nulla ma muovendomi su due strade. La prima è quella storica, quella della Dc e del Pci: cellule, sezioni, circoli, forte radicamento nel Paese e nei paesi. La seconda è quella valoriale, la giustizia, le mani pulite, la Casta, l’antiberlusconismo. E naturalmente cerco di parlare senza peli sulla lingua, parlo ai delusi, agli scoraggiati, a quelli che vogliono un cambiamento. Certo, non so se noi riusciremo a garantir loro quel cambiamento che si aspettano: non sembra ma anch’io ho un senso del limite». La maggior parte degli elettori che hanno scelto o sceglieranno Di Pietro proviene dal centrosinistra, Pd, Rifondazione, Verdi eccetera. «Io però li chiamerei ex elettori, persone che se non ci fossimo noi non voterebbero per nessuno». Mentre parliamo al telefono, Di Pietro è in Abruzzo, dove il candidato alternativo al centrodestra è un suo uomo: «Siamo partiti da meno 21 e ora siamo a meno sei. Ma non so se ce la faremo». L’Idv è un partito giovane, su piazza da sette anni, attualmente ha circa 120 mila iscritti, 110 coordinatori provinciali e 400 circoli. Un unico Congresso nazionale nel 2001, ma è in corso la nuova tornata. E’ composto da dirigenti e militanti che in gran parte si sono avvicinati alla politica per la prima volta, qualcuno come il deputato Ivan Rota perché era un promotore di «fan club» di Di Pietro ai tempi di Mani pulite, altri come il capogruppo Massimo Donadi dopo aver fatto una breve esperienza in una lista civica a Venezia. Naturalmente ora che il Partito cresce in tutta Italia capita anche qualche ingresso imbarazzante. Come quello dell’ex deputato di Mastella, Rocco Pignataro, portavoce di Vincenzo Divella, presidente della Provincia di Bari nonché suo cognato, portavoce dell’Unione delle province, consigliere di amministrazione di un paio di enti pubblici. E alla fine anche portavoce regionale dell’Idv, nell’attesa – si dice – di un seggio a Strasburgo. Qualche contaminazione con l’odiata Casta non manca. Comunque Di Pietro si espande a macchia d’olio. Lasciando sconcertati i suoi alleati del Pd, divisi tra chi vorrebbe chiudere il rapporto con lui e chi invece no perché teme di perdere altri consensi di quel popolo di antiberlusconiani incazzati. Spiega Livia Turco: «Lui usa un linguaggio diretto, che le persone capiscono al volo. Si presenta come uno di loro, che conosce i loro problemi. Vogliamo dire che è un populista? Sì lo è, ma risulta simpatico ed efficace. Parla di operai, di lavoratori dell’Alitalia, di gente normale». E voi invece? «Noi siamo troppo politicisti, la gente non ci capisce. Siamo rimasti inchiodati alla Vigilanza Rai a causa di Di Pietro, questione di cui alla gente non frega nulla, e alla fine a chi è stata attribuita la colpa? A noi. Per non parlare della storia del pizzino, anzi lasciamo perdere.... Dico solo che o ci mettiamo in contatto con la disperazione della gente o saremo spazzati via». Simile l’analisi di Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione: «In politica i vuoti si riempiono sempre. E oggi sia il Pd che noi siamo un vuoto. Nell’opposizione e nella proposta. Noi poi siamo usciti spampanati dalla sconfitta elettorale e da otto mesi ci contorciamo nelle nostre spaccature che rendono impossibile un’azione politica. Se vado a distribuire il pane a un euro al chilo, i miei compagni di minoranza mi accusano di plebeismo; se mi associo al referendum sul Lodo Alfano, di giustizialismo. E’ evidente che così qualsiasi iniziativa si blocca. Mentre Di Pietro ha tutte le possibilità di muoversi, ormai è l’unica opposizione in Parlamento e nel Paese». Dall’altra parte della barricata, il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto considera Di Pietro il peggiore dei mali possibili: «Se Veltroni non capisce che deve staccarsi da lui non farà mai quel salto nel riformismo che dice di voler fare. Esclusi i nazisti, Di Pietro è il politico più reazionario che esista su piazza». Ma il paradosso dei paradossi, che ben fotografa la situazione in cui versano le opposizioni, è che quel «reazionario» viene ormai considerato da milioni di persone il nuovo leader della sinistra.