Marco Ferrante, Il Riformista 29/11/2008, pagina 2, 29 novembre 2008
Il Riformista, sabato 29 novembre Con l’eccezione di Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, nessun uomo politico italiano è mai stato così divisivo come Giulio Tremonti
Il Riformista, sabato 29 novembre Con l’eccezione di Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, nessun uomo politico italiano è mai stato così divisivo come Giulio Tremonti. Ma la storia di Craxi e Berlusconi è quella di due capi partito, cosa che Tremonti non è ancora. Eppure non c’è azione, intervento, trovata tremontiana che non susciti una reazione intellettuale o emotiva nel sistema che lo circonda. La classe dirigente italiana che lavora a cavallo tra politica ed economia si trova in continuazione a fare i conti con lui, quando se la prende con la globalizzazione o quando rinnega le cartolarizzazioni, quando cita Ratzinger, quando chiede la galera per i banchieri che sbagliano, o rinnova la centralità di Dio patria e famiglia. Dice Rino Formica, il solo uomo politico di un altro tempo che ha avuto con lui un rapporto di formazione e di intimità (che ancora oggi resiste) che questa funzione di stimolo divisivo trent’anni fa ce l’avevano i grandi intellettuali. «Un articolo di Norberto Bobbio, un articolo di Leonardo Sciascia o di Pierpaolo Pasolini potevano mettere in moto una riflessione pubblica». In una fase storica che produce meno classe dirigente intellettuale, il professor Tremonti, giurista a Pavia, allievo di Gian Antonio Micheli, ma anche ministro dell’Economia che sviluppa un piano di leadership popolare, è capace come dice ancora Formica di «incidere contemporaneamente sulla politica come tavola di dottrina e vademecum d’azione». Sotto gli occhi Ovviamente – siccome nella politica c’è un elemento sportivo, di osservazione della competizione e di gusto per lo spettacolo che si svolge lì sotto, nell’arena – la questione che tutti si pongono è: ce la farà l’allievo di Micheli, il professionista borghese (nato in una valle del Nord), il pamphlettista di successo, il ministro dell’economia in conflitto d’interesse con la sua metà intellettuale (giacché deve gestire ottimisticamente una situazione prevista con un dose di apocalittica assertività) a diventare un grande leader politico, un capo? Forse, in questa nuova fase della lunghissima transizione italiana, è la più interessante sfida che abbiamo sotto gli occhi. Dopo tutto, la storia di Giulio Tremonti si iscrive nel graduale e oscillante processo in cui esponenti di una trasversale élite orientata sui temi dell’economia (perché centrali ai tempi della globalizzazione), si affaccia alla vita pubblica con la tentazione di assumere responsabilità politica. Da questo punto di vista la storia di Tremonti è la storia di un pezzo della borghesia, dopo la crisi dei partiti. E a vario titolo, con aspirazioni diverse, si spinge sino al limitare del crepaccio in fondo al quale si svolge la lotta. Negli ultimi anni questo processo si è intensificato, la richiesta di energie nuove è aumentata, le tentazioni e le timidezze si sono rincorse: da Mario Monti, a Luca di Montezemolo, Corrado Passera, Tommaso Padoa-Schioppa, Mario Draghi, persino Alessandro Profumo o Domenico Siniscalco, pezzi di élite considerati in transito potenziale tra il sistema economico finanziario e istituzionale, e quello politico. Di questi uomini il professor Tremonti - il primo di loro ad aver creduto nella dimensione politica del sé - è quello che di gran lunga si è spinto più avanti. Senso del dramma Per ragionare sulle sue chance, bisogna partire dai punti di forza e quelli di debolezza. La principale forza di Tremonti rispetto alla media dell’attuale classe dirigente politica è il senso storico e - al contrario di Silvio Berlusconi - il senso drammatico della politica. Indipendentemente dal merito tecnico (e cioè se sia o non sia una buona idea), Tremonti propone una nuova Bretton Woods, cioè un accordo globale sul funzionamento dei mercati internazionali, innanzitutto perché sa cos’era la prima Bretton Woods, cioè la conferenza sull’assetto del sistema finanziario internazionale e il regime dei cambi nel dopoguerra. Tremonti si pone in una prospettiva di processo storico, perché il suo apprendistato passa per fatto generazionale, formazione specifica e interesse culturale per l’idea che la politica è un pezzo della storia. Ha una struttura politicamente responsabile (insieme a Maurizio Sacconi è l’unico uomo del centro destra a non essersi occupato del caso Villari, simbolo - patetico - di una generale insipienza). Se Berlusconi è un creatore di pop (dall’estremo capolavoro delle corna in una foto di gruppo fino al pubblico riconoscimento del genio umoristico di una battuta contro di lui fatta da un avversario: Al Tappone, copyright Marco Travaglio), Tremonti mostra un distacco elitario che sta dentro l’idea della politica come dramma. La contrapposizione tra l’ottimismo di Berlusconi e il pessimismo del suo ministro dell’economia – che qualcuno ha persino maliziosamente attribuito a un disegno tremontiano – in realtà nasce dalla differenza culturale: Berlusconi è un cantante confidenziale, Tremonti un interprete drammatico. Cos’è il mercatismo Il secondo punto di forza del ministro dell’Economia è la fantasia. Esempi. il primo ministro occidentale a cogliere l’eccezionalità della crisi finanziaria in atto; è uno dei promotori della finanza creativa (ancorché oggi neghi di averla frequentata); è l’inventore dell’otto per mille, primo vero test di avvicinamento sostanziale alla chiesa cattolica: Tremonti ideò il meccanismo di attribuzione proporzionale dell’inoptato, che conservava alla Chiesa la grande maggior parte delle devoluzioni Irpef. Questa fantasia la ritroverete anche in un certo gusto – a volte troppo sofisticato – della propaganda. Mercatismo è un caso tipico. Compare per la prima volta in un libro del 2005, Rischi fatali. Sostanzialmente è l’uovo del comunismo depositato nella cultura liberale: il mercatismo – ha spiegato – è il trasferimento nel campo del mercato di una ideologia dogmatica e assoluta. Cioè il metodo comunista al servizio del liberalismo economico. un generatore di evocazioni laterali e remote. Elenco di alcune citazioni di Tremonti: la pace di Westfalia, la rivista annuale Ordo (una pubblicazione-laboratorio del 1948 di economisti sociali di mercato tedeschi), Jean-Baptiste Colbert e il colbertismo (sebbene una volta abbia raccontato che l’idea fosse nata da una indiscrezione di Siniscalco che aveva visto un libro su Colbert sulla scrivania del ministro), Barak Obama come l’imperatore postpartisan Adriano e Bill Clinton come l’imperatore dissolutissimo Eliogabalo (Antonin Artaud gli fece fare una fine terribile), Walter Rathenau – ministro dell’industria di Weimar e modello di Paul Arnheim ne L’uomo senza qualità di Robert Musil che utilizzò per polemizzare a distanza con Guido Rossi – e infine Church and Economy, un saggio del cardinale Ratzinger del 1985 citato la scorsa settimana all’apertura dell’anno accademico della Cattolica. Ha il gusto del copywriter di lusso. Ecco una tipica soluzione espressiva tremontiana, da una intervista di quasi due anni fa, in un passaggio a proposito dell’Europa di sessatantacinque anni fa, usò «la barbarie meccanizzata del nazismo». La caratteristica principale dell’intelligenza di Tremonti sta nella sua applicazione: per formazione appartiene a una categoria di persone capace di passare con disinvoltura dal dossier tecnico all’analisi di problemi generali in cui è richiesta una visione. Un tempo era un tipico patrimonio della classe dirigente italiana: da Guido Carli, a Nino Andreatta, a Bruno Visentini. La tecnica e l’umanesimo. Oggi sono rimasti Francesco Forte, Giuliano Amato e Guido Rossi, e in una generazione più giovane, Tremonti. uno che sa guardare le cose da un altro lato «e dunque è in grado di smontare – come gli riconosce Nicola Rossi – i luoghi comuni». Chatam House Il ministro dell’economia ha un altro punto di forza. Ha senso del potere, ed è resistente, perseverante, tignoso. Cerca spazio e lo ottiene. Ha combattutto, per esempio, una lunga battaglia con Antonio Fazio. in guerra da anni con le élite tecnocratiche che non sono legittimate dal consenso politico e che – dal suo punto di vista – vogliono potere senza responsablità. Il simbolo di queste élite lo ha individuato da molto tempo in Mario Draghi, il più inernazionalizzato degli uomini della nostra classe dirigente. I due non amano che la questione venga spiegata nella sua evidente schematicità. Ma è una semplice storia di potere, identità e punti vista. Per Tremonti è finito il tempo del primato dei tecnici, Draghi è vissuto per tutta la vita in quella dimensione e non ne conosce un’altra. Tremonti vuole il suo spazio all’estero, è interessato ai riconoscimenti della comunità internazionale (il 13 novembre, per esempio è stato ospite di una istituzione e luogo di discussione culturale poco aperto nei confronti degli italiani come Chatham House), l’altro non vuole cedere il suo, di spazio. Forse Tremonti non è abbastanza elastico da schivare gli ostacoli, però c’è in lui una apprezzabile franchezza negli obiettivi e nell’individuazione degli avversari: non bluffa e di solito tende a scegliersi avversari alla sua altezza (il rischio è ovviamente quello di perdere, ma questo lo vedremo più avanti). Per il momento – l’evoluzione è ancora in atto – dopo la grave sconfitta personale del 2004, con l’allontanamento dal ministero dell’economia determinato da alcuni errori di valutazione e dall’aver aperto contemporaneamente troppi fronti di battaglia, ha capito l’importanza delle reti di alleanza e dei rapporti con gli uomini chiave: già da tempo ha appianato i contrasti con Giuseppe Guzzetti, capo delle Fondazioni bancarie – antica e solida cultura del potere democristiana – con cui si battè alcuni anni fa ricavandone una netta sconfitta. Ha stretto un’alleanza di fatto, basata su una reciproca stima e considerazione dei pesi, con il più coriaceo e centrale banchiere italiano, Cesare Geronzi, la cui cultura della stabilità, degli equilibri praticabili e dell’inclusività fin dove possibile, sta prevalendo nel sistema economico e finanziario. Debolezze Da qui si può partire per ragionare sui punti di debolezza del ministro dell’Economia. Il principale: sicuramente oggi è in una posizione più forte di quella di quattro anni fa, e ha irrobustito il suo sistema di relazioni, ma di base tende a riprodurre delle costanti che potrebbero esporlo a errori tattici. In questa fase il rischio principale è di nuovo l’apertura di troppi fronti di battaglia. Con i banchieri innanzitutto. I manager bancari temono la sua avanzata, non gli piace che egli abbia cercato di condizionare a dichiarazioni di resa gli aiuti dello stato alla ripatrimonializzazione delle banche (vedremo nei prossimi giorni se funzionerà il compromesso recepito dal provvedimento varato ieri dal consiglio dei ministri). Si dice che avesse individuato in Alessandro Profumo, il capo di Unicredit, il primo obiettivo della sua offensiva. Ma, in realtà il caso Profumo, ha coinciso con l’apertura di una discussione generale con la categoria dei banchieri, che da un lato lo teme e lo prende molto sul serio, ma dall’altro, proprio perché lo prende sul serio, difficilmente consentirà l’individuazione di capri espiatori o la concessione di troppi spazi d’influenza reale sull’economia. Anche perché queste tensioni – da Tremonti in realtà sempre negate – arrivano in coincidenza di una crisi economica che richiederebbe coesione e che in teoria rappresenterebbe per il ministro dell’Economia un test della sua capacità di leadership, di guida di una classe dirigente in difficoltà. Lo stesso rischio lo corre nei confronti del parlamento che, come fa di solito con i ministri del Tesoro, chiede risorse economiche, cui lui oppone la rigidità del patto di stabilità europeo, come lucchetto dei conti pubblici (più complesso è stabilire nel merito quanto in questa fase siamo nelle condizione di fare politiche economiche in deficit). Poi c’è lo scontro ai confini della questione antropologica con gli economisti liberisti. Tremonti li accusa di non aver capito la crisi, loro – i macroeconomisti lib – rispondono che anche lui non aveva letto i rapporti della Banca dei regolamenti internazionali di cui è azionista, sul tema dei controlli fallaci da parte delle autorità di vigilanza. Alberto Alesina e Francesco Gavazzi hanno scritto un pamphlet - La crisi, può la politica salvare il mondo? - che pur senza mai nominarlo si pone come unico obiettivo il ministro dell’Economia e le sue idee sul primato della politica e di sostegno a forme di neointerventismo pubblico. Per contrastare l’influenza degli economisti liberisti ha tessuto una rete di rapporti per avere nei giornali dei punti di riferimento: dal Sole-24 Ore, al Messaggero, fino all’Osservatore Romano e al Corriere della Sera, principale quotidiano italiano, dove si è aperto uno spazio di commento per Alberto Quadrio Curzio, preside di Scienze politiche alla Cattolica, economista a lui molto vicino. Una gentilezza ottriata Il punto è – ed è un’altra sfumatura del tema dello scontro perenne come componente del tremontismo – che un certo deficit di pacificazione nell’azione del ministro dell’Economia crea a volte tensioni difficilmente governabili in un sistema di potere come quello del centrodestra: Tremonti, cioè, è un catalizzatore di gelosie. A giugno assistemmo a uno spettacolo glorioso di tremontismo attivo, quando convocò i giornalisti per una conferenza stampa al ministero del Tesoro – sala dell’Alleanza – in cui veniva presentata la squadra di governo economica alla prova del Dpef + Finanziaria. Il ministro dell’Economia, che detesta il Dpef e ha promosso la Finanziaria triennale anticipata a giugno, dava la parola ai ministri vassalli con uno strano garbo di ospite quasi sorpreso dalla sua stessa, ottriata, gentilezza. Il rischio, secondo alcuni osservatori del mondo del centrodestra, è che questa cosa alla lunga possa aumentare le frizioni con altre componenti della maggioranza e/o del governo, e creare dei problemi con Berlusconi, anche a causa della continua dialettica tra pessimismo e ottimismo. E che qualcuno provi a far fare a Giulio T., il resuscitatore di Jean-Baptiste Colbert la fine del di lui predecessore Nicolas Fouquet: la requisizione di quella specie di Vaux-le-Vicomte che è diventato il superministero di via XX settembre. La politica italiana ha un problema generale: la fissità in cui ciascuno tende a reiterare il suo ruolo. Il Pd è dilaniato da uno scontro che si protrae da vent’anni tra due ex ragazzi della Fgci, e poi del Pci e poi del Pds e dei Ds. Gianfranco Fini si sgancia ancora una volta dalla complicanza psicologica del delfinato – il delfinato è un’arte difficilissima. E Tremonti dà dei ladri ai banchieri che lo avevano sconfitto nel 2004 e fa pace con Domenico Siniscalco. Frecciate di un leader In generale la questione si può riassumere così: Tremonti è un solitario il quale sa che la solitudine è una componente intima del potere che va vestita, però, della solidarietà di parte di chi ti sta accanto, ed è anche un outsider alle prese con la necessità duplice, da un lato di integrarsi e dall’altro di distinguersi. alle prese con un processo di costruzione della leadership in cui è sottoposto al confronto con le culture alternative del potere, la principale delle quali è quella di Gianni Letta. Su questo giornale, Paolo Messa ha acutamente riprodotto un documento cui ha attribuito un valore politico, il necrologio bipolare che Letta ha dedicato a Sandro Curzi «un combattente, un amico, un avversario. Se ti batte non ti meravigli perché ne riconosci il valore. Ma quando ti capita di infilarlo, allora la soddisfazione è maggiore. Un esempio di come si possa rimanere coerenti e aperti, fedeli ai propri principi senza disconoscere quelli degli altri». L’alternativa tremontiana è più drastica, secca, impietosa, orientata - secondo chi lo studia - all’annientamento dialettico dell’avversario. Dice Rino Formica di avergli fatto notare una sfumatura retorica a proposito dei suoi discorsi pubblici: «Un grande leader politico tiene la parola per trenta minuti e lancia una sola frecciata all’avversario, non trenta frecciate». Il lato pop del consenso L’incognita più profonda per Tremonti riguarda la sua vocazione maggioritaria. Tremonti è un uomo politico che non ha mai vissuto la prova del consenso in prima persona. Il suo gradimento è per ora solo misurato dai sondaggi. La sua forza politica si basa su un rapporto con la Lega, nei confronti della quale ha svolto un lavoro di cerniera, rispetto al resto del centrodestra. Il processo di attribuzione a Tremonti di una quota della vittoria elettorale alle scorse politiche deriva da un riflesso del nostro proporzionalismo. La Lega è cresciuta. E abbiamo tasferito sull’esito del risultato elettorale leghista, il riflesso del successo editoriale di La paura e la speranza, il pamphlet antiglobal di un politico affine alla Lega. Tremonti è il più interessato a uscire da questa forma di ambiguità. Sa di dover mettere alla prova la sua vocazione maggioritaria. Già da alcuni anni effettua dei test di dialogo diretto con il popolo. Lo ha fatto nel 2003 fa cercando il consenso sulla partita Parmalat, ma non funzionò. Lo ha rifatto sugli stesi temi, proponendo la Robin tax contro banchieri e petrolieri per finanziare la social card, un provvedimento di cui vedremo gli effetti di gradimento popolare. Lo ha fatto sostituendo di fatto il meccanismo sulla portabilità dei mutui messo a punto da Pierluigi Bersani, con la rinegoziazione dell’importo rateale concordato con l’Abi. Ogni tanto cerca l’applauso quando promette la galera per i banchieri o quando minaccia le dimissioni sul decreto salvamanager. Negli ultimi tempi ha cominciato a rivolgersi anche direttamente a un elettorato tradizionalmente di sinistra, a cui rivolge in varie declinazioni di volta in volta una rivalutazione culturale di Marx o aperture di critica sociale al capitalsimo. Scomposizione Del resto, Tremonti ha due caratteristiche che in questa prospettiva potrebbero tornargli utili. La prima è fondamentale per un leader politico: è duttile. liberale, ma è anche colbertista, è contro il patto di stabilità, ma disponibile a difenderlo quand’è il caso, è contro la finanziarizazione, ma è stato finanziariamente creativo, è laico, ma valoriale. Caratteristica numero due. Secondo Formica, Tremonti è l’unico uomo politico che ha forza, fantasia, immaginazione per scomporre e ricomporre il quadro politico a partire da questa duttilità. «Tremonti crede che le ideologie non siano finite. E che la destra debba riattualizzare, per esempio, il dio padre e famiglia. Ma sa anche che bisogna fare politica senza schematismi, pragmaticamente: oggi pro-mercato, domani pro-stato. In politica bisogna affrontare la realtà pragmaticamente. Credo che voglia essere pronto nel caso in cui si presenti un nuovo quadro: la guerra scoppiata intorno alla globalizzazione, e ai suoi effetti, è enorme, fa saltare destra e sinistra per come le conosciamo. Tremonti ritiene – e credo che abbia ragione – che stiamo andando verso l’abbassamento del tenore di vita delle aree sviluppate del mondo. Non si candida a essere un piazzista di una modernità che non c’è più, ma alla costruzione di una stabilità che sia ragionevolmente possibile». Dunque, se la storia dovesse subire una brusca accelerazione – questo è più o meno il ragionamento – la crisi della globalizzazione imporrà agli schieramenti di riaggregarsi in un altro modo. E Tremonti si candida a stare sul confine. In una intervista al Foglio del febbraio del 2007 spiegò una cosa interessante: «La destra ha una chance per elaborare dottrine, principi, idee e simboli nuovi e superiori a quelli della sinistra. Un esempio, è quello della politica ambientale. (…) La nostra nuova filosofia politica può e deve essere sviluppata su una curva politica molto più lunga: contenere la dimensione dell’uomo, il rapporto dell’uomo con la natura, la fiducia in un’evoluzione progressiva della scienza. (…) Il mercatismo non ha gli strumenti per l’analisi sull’ambiente, perché conosce solo un paradigma, il pil». Certo, Giulio T. potrebbe essere il primo prodotto del mercato occidentale della politica ai tempi della globalizzazione esplosa. Oppure questo non accadrà. Il mondo non subirà alcuna accelerazione e le sue chance andranno valutate in uno schema più normale, in un’evoluzione senza millenarismi, a partire dal modo in cui saprà gestire la crisi economica. Qualunque cosa accada, però, nella sua marcia verso la leadership dovrà necessariamente attraversare una nuova cruna. Dice Edmondo Berselli: «Gli manca lo spirito della carogna politica. Se sarà un tempo di tessitori un Tremonti incavourrito, istituzionale dunque, può farcela. Ma secondo me gli manca ancora l’idea, la struttura, del potere come fardello». Il potere come fardello - non solo come esito di una vittoria politica - è il peso che troverete sulle spalle di Adriano imperatore, e che Adriano imperatore accetta di portare, ed elaborare, molto prima di diventare un modello postpartisan. Marco Ferrante